Repertorio Salute

La valutazione dei rischi di igiene e sicurezza tra storia e attualità

Un interessante spaccato storico della prevenzione attraverso la storia della valutazione dei rischi.

Nella storia italiana alcune circostanze configurano, a differenza con gli altri Paesi, il panorama complessivo della lotta contro le condizioni di nocività del lavoro. Anzitutto l’avvicendamento di denominazioni istituzionali e la conseguente riconfigurazione delle strutture deputate alla “governance”  del settore della Prevenzione a partire dal 1882, periodo in cui  nasce l’Associazione Italiana Utenti Caldaie a Vapore con l’intento di regolamentare un settore in crescita ove potevano determinarsi gravi infortuni  al 1884 con l’A.P.I. (Associazione Prevenzione Infortuni, costituita  tra gli Industriali) trasformata nel  1926 in ANPI (ente di diritto pubblico: Associazione Nazionale Prevenzione Infortuni) in ultimo ancora trasformata in ENPI (Ente Nazionale Prevenzione Infortuni nel 1932). 

Tutto ciò in un contesto  legislativo caratterizzato da “non solo embrionali” norme di tutela sanitaria dei lavoratori: a ben vedere, infatti la statuizione di procedure inerenti la valutazione dei rischi era già prevista indirettamente dall’art.41 della Costituzione Repubblicana che stabilisce

l’iniziativa economica è libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recar danno alla sicurezza

fatto questo che impone, conseguentemente, la valutazione proprio di quali siano le condizioni ipotetiche di pericolo per es.incompatibili con le lavorazioni. Ed ancor più chiaramente,  l’art 2087 del cc prevedendo che

L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che,secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

non aveva fatto altro che disporre già all’epoca, un dovere fondamentale per il datore di lavoro, quello cioè di diligenza qualificata, adeguata valutazione dei rischi  e della nocività (particolarità del lavoro), sicurezza (tecnica) dettate dal progresso tecnologico.

Ma l’obbligo era piuttosto  generico (secondo alcuni in nuce) e veniva verificato solo in caso di infortuni o tecnopatie. Peraltro le norme di sicurezza, innovate poi  nel 1956 con una serie di disposizioni più organiche e che resteranno poi in vigore per 50 anni divenendo il “core” di tutta la legislazione prevenzionistica di fine secolo, non sono servite a limitare sensibilmente l’effetto devastante di alcuni rischi e  della carenza di sicurezza nei luoghi di lavoro. Proprio gli art. 4 dei DPR 303/56 e 547/55 avevano ribadito che i dirigenti e preposti, ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze, avrebbero dovuto

rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici

cui erano esposti, incombenza che non poteva certo essere realizzata senza procedere ad una preliminare valutazione dei rischi collegati all’attività di lavoro. Anche perchè occorreva spiegare la funzione delle misure di sicurezza adottate proprio per evitare specifici rischi infortunistici o tecnopatici. Tuttavia, all’epoca stime adeguate dei rischi venivano effettuate – per lo più solo in grandi e medie aziende – (solo) se vi era presenza sindacale attiva e/o se vi erano stati infortuni con conseguenti indagini (fattori queste ultime, che potremmo definire – nel corso del tempo –  di “sensibilizzazione” ai fini della attuazione delle misure pur previste dalla norma). Occorre anche considerare che di fronte a sanzioni tutto sommato assai ridotte, l’imprenditore negligente trovava più conveniente risparmiare in sicurezza considerata l’assai scarsa  vigilanza, spesso la ridotta sindacalizzazione e il conseguente limitato “controllo sociale”  nonchè l’”attenuazione delle coscienze” a causa della “monetizzazione del rischio” o della gestione quasi esclusivamente assicurativa delle tecnopatie . Al punto che “malattie professionali” nell’accezione comune (ed anche in tema di indennizzo) erano “praticamente”  ritenute all’epoca e fino a ben oltre la seconda metà del XX secolo, solo quelle inserite in una apposita “tabella”: il “restauro” del diritto avverrà poi con sentenze della Corte Costituzionale che apriranno la strada al sistema “misto” ma ancor più con le sentenze penali di vari Pretori e Tribunali che ribadiranno la causalità professionale per qualsiasi   fattore di rischio causalmente in gioco nei procedimenti per omicidio colposo o lesioni colpose.

Le funzioni dell’ENPI vengono poi ulteriormente precisate con la L. 2390/52 allorchè all’Ente vengono affidati compiti antinfortunistici, verifica degli impianti elettrici, degli ascensori, dei mezzi di sollevamento, attività di propaganda antinfortunistica, visite mediche su richiesta degli  imprenditori e  orientamento psicologico per minori apprendisti, il tutto con la previsione  di promuovere, sviluppare e   diffondere la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali , nonché l’igiene del lavoro.

L’ENPI operava tuttavia con un insufficiente “mandato sociale” e prevalentemente su richiesta e finanziamento dei privati anche con contributi INAIL, allo scopo di rendere più agevole l’adempimento alle norme di prevenzione e sicurezza, inclusa ovviamente l’attuazione della sorveglianza sanitaria. L’Istituto, pur contribuendo a fare sviluppare, successivamente all’attuazione dello Statuto dei Lavoratori, le prime “valutazioni delle condizioni di rischio” ad opera di gruppi appositi di varie professionalità integrate ,in risposta alle esigenze palesate dai lavoratori e dai sindacati con l’art 9 della L. 300, operava, per tali incombenze, “a macchia di leopardo” senza erogare per tali attività “integrate” una assistenza globale a livello nazionale e risentendo molto delle richieste da parte dei datori di lavoro.

Ed all’epoca la valutazione dei rischi non veniva spesso intesa, come poi è stato a partire dal 1991 con il D.Lgs. 277, come valutazione dei rischi residui, ma sovente le attività di prevenzione  nelle aziende erano limitate alla verifica di quanto lo stesso Legislatore aveva provveduto direttamente ad indentificare come condizioni di rischio nei numerosi articoli del DPR antinfortunistici (molti dei quali sono oggi riportati in allegato al D.lgs. 81/2008). In definitiva i rigidi precetti antinfortunistici (DPR 547/44 e DPR 303/56) costituivano già una “lista di controllo” che individuava situazioni incompatibili con la sicurezza proponendo caso per caso contromisure organizzative , tecniche o operative per garantire la sicurezza.

Figure di spicco nell’igiene industriale del tempo come Mario Maggio, Assuero Gaffi e Giuseppe Rozera a Roma, Caio Plinio Odescalchi a Milano,  furono all’epoca i punti di riferimento per una vasta gamma di igienisti del lavoro e “medici di fabbrica” operativi (capofila  furono Angiolino Iavicoli con  Giovanni Gennaccari  a Roma, Maddalena Munari a Padova e Alfonso Le Noci a Taranto) che successivamente costituiranno – allo scioglimento dell’Ente nel 1978 – alcune delle travature  sulle quali  si svilupperà “tecnicamente”  il SSN a livello locale (altri pilastri della disciplina  furono E. Gaffuri, A. Grieco ed  i medici di alcune strutture accademiche e funzionari di Enti Locali, Patronati e Organizzazioni dei Lavoratori che parallelamente e spesso antiteticamente svilupperanno ulteriori vie di approccio al problema della prevenzione nei luoghi di lavoro).

Ed è proprio con l’attuazione delle indagini ambientali interdisciplinari che intorno all’inizio degli anni ’70, avviene il superamento della verifica monosettoriale ed isolata delle condizioni di pericolo e si perviene storicamente alle prime embrionali ed antesignane “valutazioni” , superandosi le rigide barriere penali costituite dal minimale adempimento alla norme di sicurezza del DPR antinfortunistici evenienza motivata dalla

realtà industriale in continua evoluzione, della crescente complessità dei cicli tecnologici, dai mutamento organizzativi, dal crescente numero di sostanze introdotte nelle lavorazioni, dall’incidenza di problemi psicologici  collegati ad attività stressanti.

Ad analoghe indicazioni pervengono alcune osservazioni accademiche del tempo  e soprattutto le crescenti e diffuse esperienze sindacali ed operaie che rivendicano però una maggiore “terzietà” di molti  preventori occupazionali pubblici e privati “focalizzati” sulla “sanitarizzazione” della prevenzione, sulla rigida osservanza clinica (peraltro ancora  non supportata  tecnologicamente per fronteggiare i molti rischi emergenti)  e idoneativa (più che basata sulle valutazioni ambientali e sul vissuto operaio). E le prime indagini ambientali dell’epoca, volte a meglio definire i rischi da lavoro,  consistevano nell’esame dei molteplici aspetti della realtà aziendale  e nella verifica di quanto incidesse l’ambiente di lavoro nella determinazione di tecnopatie, infortuni e disagi. Vi era inoltre una  promozione della prevenzione attraverso una sorta di auditing che comprendeva l’esame di una grande quantità di documenti e condizioni di lavoro (collocamento geografico e storico, finalità produttività dell’azienda, ciclo tecnologico completo, edilizia, viabilità, antinfortunistica, antincendio, macchine, dirigenza e preposti, organizzazione ed addestramento, infortuni, collocamento degli invalidi, assenteismo,cultura prevalente ,risposta ai ritmi lavorativi, igiene ambientale,situazioni di disagio basate su indicatori quali tecnopatie, richieste di spostamento, infortuni, disturbi accusati, microclima, rumorosità, polveri, fumi, allergeni, mensa aziendale). I rilievi dei “gruppi interdisciplinari” erano tali da richiedere non solo una valutazione tecnica da parte di diverse componenti professionali  ma anche una collaborazione fattiva dei lavoratori che “attraverso i gruppi omogenei  esprimevano “osservazioni ed esperienze integrando in maniera più completa ed esauriente la valutazione dell’ambiente di lavoro”.

Parallelamente, si è già tratteggiato come – spesso in antagonismo – Sindacati, Patronati e SMAL procedessero a valutazioni dei luoghi di lavoro in alcune, più sensibili Regioni Italiane (Umbria, Toscana, Emilia, Lombardia, Lazio) con interventi che tenevano in maggior considerazione fattori soggettivi, valorizzando anche aspetti problematici dell’organizzazione del lavoro.

Con il 1978 , la Legge 833 di Riforma Sanitaria ha poi previsto  lo svolgimento da parte delle Unità Sanitarie Locali di  Attività di attività di prevenzione comprendenti a) La individuazione, l’accertamento e il controllo dei fattori di nocività… b) La comunicazione dei dati accertati…  c) La indicazione delle misure idonee all’eliminazione dei fattori di rischio…  d) La formulazione di mappe di rischio… e) La profilassi degli eventi morbosi…  f) La verifica, … ,della compatibilità dei piani urbanistici e dei progetti di insediamenti industriali … con le esigenze di tutela dell’ambiente e … di difesa della salute della popolazione e dei lavoratori .

In definitiva, il modello italiano era caratterizzato, nel periodo 1980-1994,  da una apparente coesistenza di obblighi tra Datori di lavoro e organi pubblici che solo negli anni successivi sarà definitivamente chiarita e precisata. In effetti, l’ente pubblico era l’attore principale della prevenzione nei luoghi di lavoro, le funzioni di prevenzione, promozione e vigilanza erano concentrate su un unico soggetto e le risorse assegnate ai servizi sanitari pubblici erano  del tutto inadeguate (salvo rare eccezioni) rispetto ai bisogni dell’epoca.

Lungi dall’ottenersi adeguate valutazioni dei rischi, il sistema offriva controlli medici piuttosto generalistici, basati più sulla frequenza dei controlli che sull’ancora inadeguato  monitoraggio biologico. A posteriori si può ritenere che  vi fossero assai  pochi vigilanti, difformità nell’applicazione delle norme, scarsissimo interesse e poca premialità  per la sicurezza, sanzioni irrisorie, diffusa evasione della normativa, fiscale sanitarizzazione delle attività di prevenzione (pochissimi tecnici, ingegneri e chimici, molti medici e infermieri) .

Il sistema gestionale inizia a cambiare con il già citato D.Lgs 277/91, pur permanendo un privilegiato approccio del medico pubblico che “ove possibile” era designato responsabile della sorveglianza sanitaria. Ancor più con il successivo D.Lgs. 626/94  si passa ad una sorta di “autocontrollo” di prevenzione (certo diverso e forse riduttivo rispetto a quello previsto ed adottato con successo in Europa per le industrie alimentari  o HACCP). All’epoca il termine “valutazione” ricorre in diversi  articoli e commi (3co1, 4co1, 4co2, 4co5, 4co7, 9co1, 19co1, 43co1, 48co4, 52co2, 63co1, 63co2, 63co3, 63co5, 59co1, 59co5, 78,79,60co1, 81co1, 81co2, 85co1, 86co1,) a testimonianza dell’interesse del Legislatore per questa innovativa procedura. Interesse poi dimostrato solo dopo diversi anni a partire dal 1997 anche con la creazione di una nuova professione sanitaria , quella dei Tecnici della Prevenzione dell’ambiente e dei luoghi di lavoro  e con  l’emanazione di norme sulle loro specifiche competenze.

Ma l’abbondanza delle norme coesistenti (il cd testo unico che abolirà i DPR antinfortunistici è solo del 2008) determinava inevitabilmente lo spostamento dell’attenzione del preventore verso le ancora numerose condizioni di inadempienza direttamente evidenziabili dall’inosservanza ai precetti antinfortunistici piuttosto che verso una diversa “gestione” del sistema prevenzione indirizzata anche ad ottimizzare condizioni di adempimento alla norma “penale”. E gli stessi cultori della prevenzione addetti alla vigilanza osservavano  come fosse difficile pensare ad un livello aggiuntivo o migliorativo di sicurezza ove ancora gli standards minimali non fossero rispettati.

Nel 2004  (capofila Prof.Apostoli e Bartolucci) la SIMLII redige le Linee guida per la valutazione del rischio soprattutto nella visuale del medico competente, peraltro successivamente chiamato dal Dlgs 81/2008 espressamente ad una diretta collaborazione, (penalmente sanzionata in caso di inadempienza), con il datore di lavoro  Nei documenti redatti emerge in modo chiaro la necessità preliminare di conoscenze scientifiche generali- teoriche sui problemi oggetto di valutazione ed “eventualmente” di indagini sul campo che possano comportare monitoraggi ambientali o biologici con successive fasi  di stima il grado di esposizione  . Infine il quadro generale normativo e di impegno istituzionale si definisce ulteriormente nel  2011 con l’obbligo di valutazione di tutti i rischi : stress , gravidanza , differenze di genere, età,  provenienza da altri Paesi e con l’ obbligo di indagare  su tutti i fattori fisici (es. microclima, rumore illuminazione,  NIR,vibrazioni e atmosfere iperbariche). E tra l’altro, è proprio sulla collaborazione del medico competente per la valutazione dei rischi che oggi si sviluppa un importantissimo apporto per le attività di prevenzione in azienda. L’obbligo sancito dal 1 co del’art 25 del D.Lgs. 81/2008 è

preciso, (ma) senza specificare le concrete modalità, i contenuti minimi e le procedure attraverso le quali il medico competente possa assolve(rlo)…

per cui  vi è stata nel tempo  una evoluzione nelle interpretazioni giuridiche (con recenti  pareri, sentenze ed ampio dibattito sul tema). La questione assume ancora maggior rilievo se si pensa che, in tema di collaborazione, l’eventuale omissione “collaborativa” del RSPP non è sanzionata penalmente. In ogni caso, la Valutazione del Rischio (secondo alcuni autori traduzione non del tutto precisa dall’inglese “risk assessment”) entra nel bagaglio culturale della medicina del lavoro all’inizio degli anni ’80, ma in Italia viene discussa in ambito scientifico e  divulgata circa 10 anni dopo. Infatti nel 1989 la Direttiva Quadro della CE l’aveva introdotta nel panorama giuridico internazionale e il D.Lgs. 277 del 1991 – emanato in recepimento di alcune direttive CE – ne aveva fornito una prima ampia valorizzazione imponendola in modo particolare per alcuni rischi (amianto, piombo, rumore).

A livello scientifico la VR veniva  trattata in occasione del 56° Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina del Lavoro e Igiene Industriale tenuto a Venezia nel 1993 (Lotti, 1993; Saia, 1993). La procedura generalmente adottata dal mondo scientifico era comunque di derivazione anglosassone, in quanto in precedenza sperimentata negli USA dalla Food and Drug Administration negli anni ’50 ,poi utilizzata anche – in ambito ambientale –  dalla Environmental Protection Agency (EPA) ed infine  applicata alla sanità nel 1970 (USA, crisi del Malpratice).  Più specificatamente – in ambito di igiene e medicina del lavoro – la VR veniva formalizzata dalla National Academy of Science nel 1983. All’epoca venivano già riportati  terminologia e concetti oggi generalmente condivisi di risk assessment ( caratterizzazione dei potenziali effetti nocivi dell’esposizione umana a rischi ambientali), precisandone 4 articolazioni: hazard identification, dose-response assessment, exposure assessment e risk characterization. Dai concetti elaborati dal NAS (USA,1983)  deriva la separazione tra risk assessment e risk management, definendosi come  gestione del rischio un processo successivo alla stima del medesimo. Con il risk management  si intendevano  valutare conseguenze economiche, sociali, e sulla salute pubblica con correlata adozione di  procedure o “policies” anche normative per la limitazione o riduzione del rischio.

Si deve tener presente che lo stesso concetto di rischio non ha aveva mai avuto una definizione univoca nella storia. Ad esempio, gli arabi definivano il rischio “possibile risultato fortuito e favorevole” traducendo l’antico termine risq in “tutto ciò che ti è stato donato [da Dio] e dal quale puoi trarne profitto” mentre i greci ponevano l’accento sulla casualità piuttosto che sul valore (positivo/negativo) del risultato.

L’attuale significato più diffusamente condiviso del termine “rischio” è però più vicino al concetto dei latini (risicum) anche perché essi dimostravano già una certa contiguità all’attuale sentimento comune di rischio come “pericolo connesso al realizzarsi di un evento sfavorevole”. Di fatto, oggi si associa il “rischio” a tutte quelle situazioni potenzialmente dannose cui è esposta un’azienda o un soggetto riconoscendolo come l’“esposizione all’incertezza che ha potenziali conseguenze negative”, considerandone quindi l’esposizione agli eventi negativi ed escludendone le possibili conseguenze positive indicate separatamente come “opportunità”.

Infine in Italia oggi il termine “rischio” è semanticamente definito – in analogia con quanto postulato in Europa –  con la

probabilità di raggiungimento del livello potenzile di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione (art 2 co 1″s”)

mentre il legislatore ha definito invece “pericolo“(art 2 co 1 “r”)

la proprietà o qulità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni

ed infine come “valutazione dei rischi” (art 2 co1 “q”) ha inteso

la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito della organizzazione in cui essi prestano la propria attività,finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza.   

E Nonostante la VR sia poi stata  assunta dall’igiene Industriale come metodo per la determinazione di alcuni importanti valori limite della concentrazione di tossici negli ambienti di lavoro (benzene, arsenico, ossido di etilene: Andersen, 1988; Paustenbach, 1990) vi sono stati “molti agenti di rischio per i quali tale procedura o non è stata mai applicata o ha incontrato difficoltà di applicazione”.

Nelle linee guida SIMLII si testimonia un importante fenomeno e cioè come

gli stessi termini agente di rischio, rischio,valutazione dell’esposizionevalutazione del rischio… siano stati utilizzati in modo confuso anche dopo l’emanazione del D.Lgs. 626/94 e 25/02 (soprattutto) perché discipline  affini tendevano a sviluppare proprie definizioni assegnando significati gergali

a termini che non risultavano così riconoscibili  al comune linguaggio scientifico. Al punto che, in calce alle medesime linee guida, si proponeva l’adozione di  un tentativo di standardizzazione del vocabolario (2004), fatto che successivamente veniva ripreso anche dal Legislatore Italiano con la riformulazione definitoria dell’art. 2 del Dlgs81/2008 ed anche con la riformulazione della parte avente per oggetto la VR (art. 28) nei suoi contenuti fondamentali e nelle modalità di effettuazione (art. 28).

Secondo l’OSHA e l’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro

la valutazione dei rischi costituisce  la base dell’approccio europeo per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.

Infatti  se il processo di valutazione dei rischi viene condotto in maniera inadeguata o se tale processo, che costituisce il punto di partenza dell’approccio alla gestione della salute e della sicurezza, non viene realizzato affatto, è poco probabile che siano individuate o messe in atto misure preventive appropriate. L’importanza di un corretto apporto preliminare è costituita dal fatto che ogni anno milioni di persone nell’UE sono vittime di infortuni sul lavoro o subiscono gravi danni alla salute e di fatto una corretta ed adeguata valutazione dei rischi rappresenta la chiave di volta per ottenere luoghi di lavoro salubri. La valutazione dei rischi è tuttavia un processo dinamico, che consente alle aziende e alle organizzazioni di mettere a punto una politica proattiva di gestione dei rischi sul lavoro ed è un processo incessante.

Si deve osservare che nel panorama di Enti, Istituti ed Associazioni che hanno avuto qualche parte nel copione italiano della “Valutazione dei Rischi” vi è  l’ISPESL, il cui Dipartimento di Medicina del Lavoro ha partecipato alla emanazione di numerosi atti, linee guida e protocolli proprio per indirizzare adeguatamente gli operatori. Allo stesso modo l’ISPESL partecipava alle Commissioni governative e a talune Internazionali di modo che vi era  impegno costante sulla specifica tematica insieme alle organizzazioni tecniche delle Regioni che hanno in diverse occasioni emanato atti di indirizzo per gli operatori  dopo l’emanazione del D.Lgs. 626/94.

Ma sotto il profilo “tecnico” il riferimento comunitario più importante per quanto concerne la valutazione del rischio è pur sempre  rappresentato dalla direttiva quadro 89/391/CEE che fornisce un quadro comprendente i “principi generali relativi alla prevenzione dei rischi professionali… nonché direttive generali per l’attuazione dei principi generali precitati” (articolo 1, paragrafo 2). Essa stabilisce che i datori di lavoro sono responsabili di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro, e che la valutazione dei rischi è un aspetto integrante di questa gestione obbligatoria della sicurezza e della salute sul lavoro (OSHM). Ed è stata questa  direttiva a introdurre quale elemento chiave il principio di valutazione dei rischi specificandone gli elementi principali (ad esempio, individuazione dei rischi, partecipazione dei lavoratori, introduzione di misure adeguate aventi come priorità l’eliminazione dei rischi alla fonte, documentazione e rivalutazione periodica dei rischi sul luogo di lavoro).

Insomma, nell’ottica del Legislatore Europeo  la valutazione dei rischi costituisce quindi il punto di partenza per un processo completo di gestione della sicurezza e della salute sul lavoro giocando un ruolo centrale poiché consente ai datori di lavoro di mettere in atto le misure necessarie per tutelare la sicurezza e la salute dei loro dipendenti.

Tale approccio,condiviso e recepito dalla legislazione di vari paesi europei, ha tuttavia una particolare valenza in Italia ove la normativa di sicurezza è assistita da sanzioni penali. Di conseguenza la giurisprudenza penale ha ampliamente discusso della valutazione del rischio..

La VR – intesa come complesso o “insieme” delle misure da attuare per fronteggiare i rischi (e quindi risk evaluation, risk assessment e risk management più programmazione delle misure ideali di bonifica) deve infatti essere ACCESSIBILE  e FACILMENTE COMPRENSIBILE, essendo uno strumento di comunicazione con i lavoratori ed i soggetti esperti.  Significativo, a tale proposito, il fatto che la giurisprudenza, già da qualche anno, ha osservato che (TRIBUNALE DI MILANO SEZ. 9° PENALE, 27.9.02, IMP. BRACCHI E ALTRI) poichè dopo la procedura di valutazione il datore di lavoro deve redigere un documento con un triplice contenuto (uno scritto sulla valutazione dei rischi e sui criteri specifici adottati; le conseguenti misure preventive e protettive da individuare in correlazione ai rischi già valutati; una programmazione di tutte le misure “opportune” per il “miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza) tutte queste incombenze devono essere adempimenti formali ma anche sostanziali … e devono esserci profili attinenti ad obblighi di risultato che devono avere una sostanziale esecuzione da parte del datore di lavoro. Pertanto, secondo i Giudicanti Italiani,   costituisce violazione della norma  non soltanto l’omissione ma anche l’adempimento in senso puramente formale di tali obblighi. E quindi, sia l’omessa sia la formale valutazione del rischio (con mera trascrizione di un rischio determinato astrattamente e genericamente sul relativo documento) creano una fondamentale e grave lacuna. In sostanza l’adempimento astratto, formale, o generico dell’obbligo può risultare addirittura ingannevole per i dirigenti, preposti, lavoratori, operatori esterni, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza etc che ripongono un irrealistico affidamento sull’inesistenza o genericità di un rischio che invece è ben presente.

Si deve poi prender atto che  la Direttiva quadro riporta solo le definizioni di lavoratore, datore di lavoro, rappresentante dei lavoratori e prevenzione, e non quella di valutazione dei rischi, che viene menzionata invece all’art. 2 come procedura obbligatoria (ma succedanea all’evitare i rischi)

Il datore di lavoro mette in atto le misure previste al paragrafo 1, primo comma, basandosi sui seguenti principi generali di prevenzione: a) evitare i rischi; b) valutare i rischi che non possono essere evitati;

ed anche all’art 3 , 9 co. 1a quale obbligo del DL

disporre di una valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, inclusi i rischi riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari.

Infine, la VR è citata tra le procedure per le quali viene assicurato l’accesso ai rappresentanti dei lavoratori  (art. 10 co. 3a) insieme alle misure di protezione e tra gli argomenti  ìdi obbigatoria consultazione (art.11 co. 2)

partecipano in modo equilibrato, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, o sono consultati preventivamente e tempestivamente dal datore di lavoro.

Numerose ulteriori Direttive sono state poi emanate ad integrazione della Direttiva Quadro, e moltissime anche se con qualche ritardo  sono state poi recepite con Decreti Legislativi nel nostro Paese (89/654/CEE – prescrizioni minime… per luoghi di lavoro – prima direttiva particolare, 89/655/CEE – requisiti minimi di sicurezza e di salute per … attrezzature di lavoro – seconda direttiva particolare, 89/656/CEE – prescrizioni minime … per l’uso … di attrezzature di protezione individuale durante il lavoro – terza direttiva particolare, 90/269/CEE – prescrizioni minime … concernenti la movimentazione manuale di carichi  – quarta direttiva particolare, 90/270/CEE – prescrizioni minime … per le attività … su attrezzature munite di videoterminali – quinta direttiva particolare, 90/394/CEE – protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni durante il lavoro – sesta direttiva particolare, 90/679/CEE – protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti biologici – settima direttiva particolare, e 93/88/CEE che modifica la direttiva 90/679/CEE relativa alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti biologici – 95/63/CE modifica la direttiva 89/655/CEE relativa ai requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso delle attrezzature di lavoro … – seconda direttiva particolare, 97/42/CE che modifica per la prima volta la direttiva 90/394/CEE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi da un’esposizione a.. cancerogeni durante il lavoro – sesta direttiva particolare, 98/24/CE, protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici… – quattordicesima direttiva particolare, 99/38/CE che modifica per la seconda volta la direttiva 90/394/CEE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni .., estendendola agli agenti mutageni – sesta direttiva particolare, 99/92/CE, prescrizioni minime per il miglioramento della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori esposti al rischio di atmosfere esplosive – quindicesima direttiva particolare2001/45/CE che modifica la direttiva 89/655/CEE del Consiglio relativa ai requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso delle attrezzature di lavoro  – seconda direttiva particolare, 2003/10/CE prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori agli agenti fisici [rumore] – diciassettesima direttiva particolare, 2003/18/CE che modifica la direttiva 83/477/CEE del Consiglio sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto, 92/57/CEE concernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili- ottava direttiva particolare, 92/58/CEE (prescrizioni minime per la segnaletica di sicurezza  – nona direttiva particolare, 85/92/CEE … miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento – decima direttiva particolare92/91/CEE miglioramento della tutela della sicurezza e della salute .. nelle industrie estrattive per trivellazione – undicesima direttiva particolare92/104/CEE, miglioramento della tutela della sicurezza e della salute nelle industrie estrattive a cielo aperto o sotterranee dodicesima direttiva particolare93/103/CEE, prescrizioni minime di sicurezza e di salute per il lavoro a bordo delle navi da pesca tredicesima direttiva particolare, 2002/44/CE, prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici [vibrazioni] sedicesima direttiva particolare2004/40/CE, prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici [campi elettromagnetici] diciottesima direttiva particolare, 2006/25/CE, prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici [radiazioni ottiche artificiali] – diciannovesima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE).

I passaggi del D.Lgs. 277/91, e del D.Lgs. 626/94, nel Dlgs 81/2008 hanno infine indicato meglio del D.Lgs. 626/94 alcuni concetti, tra i quali il termine rischio, utilizzato 140 volte nei vari articoli di legge precedenti (1994), che poteva all’epoca essere interpretato sia come “esposizione”, (es. “riduzione del r. alla fonte” o “valutazione del r. come valutazione dell’esposizione“) sia  come “disagio o danno” (r. di infortunio, di lesioni, di rimanere feriti, di infezione, allergenico) sia come “pericolo” (r.di esplosione, di cadute di oggetti, di scivolamento) o genericamente (cartella di r., informazioni sui r., situazioni di r.).  

Possiamo affermare che, a cavallo degli anni 2000, in Italia si è realizzato quanto aveva postulato l’Agenzia Europea per la Sicurezza e Salute sul Lavoro e cioè che “non esistono norme che stabiliscono come effettuare le valutazioni dei rischi ma è bene strutturare la valutazione in modo da garantire che tutti i pericoli e i rischi pertinenti siano presi in considerazione”.

Si è passati quindi da valutazioni “di massima” isolate e sporadiche nel contesto prevenzionistico del Paese (epoca ante 1970 e ex ENPI) a processi conoscitivi più adeguati per l’accresciuta  consapevolezza dei lavoratori (tra il 1970 ed il 1990)  spesso oggetto  di riferimenti dottrinari non univoci, con fenomeni di benchmarking (fino al 1994) ed in molti casi utilizzando, fino ai primi anni del 2000 spesso  erroneamente check list , fino ad una più moderna concezione valutativa.

Il fenomeno maturativo, abbastanza lento, ha avuto numerosi attenti discepoli che oggi rappresentano il presente della prevenzione ed i riferimenti per nuovi e – ci auguriamo –  più rapidi modelli di sviluppo culturale in tema di prevenzione .  E nel momento in cui si individua un rischio, viene oggi avviata la valutazione partendo dalla questione di base, vale a dire analizzando se il rischio possa essere eliminato. E stabilendo:

  • cosa può provocare lesioni o danni;
  • se è possibile eliminare i pericoli e, nel caso in cui ciò non sia possibile, ï quali misure di prevenzione o di protezione sono o devono essere messe in atto per controllare i rischi.

Del resto In merito fin dal 1995 la Comunità Europea aveva fornito indicazioni sulle procedure da seguire per adempiere a quanto indicato dalla Direttiva Quadro 89/391/CE . Ed In tutte le indicazioni internazionale era ipotizzato un  approccio graduale alla valutazione dei rischi attraverso una prima fase di  individuazione dei pericoli e delle persone a rischio , una seconda fase di valutazione ed attribuzione di un ordine di priorità ai rischi cui conseguiva una ulteriore fase decisionale sull’azione preventiva da intraprendere, uno step successivo con previsione di intervento con azioni concrete ed infine una ultima fase di controllo e riesame.

Tutte le indicazioni convengono sul fatto che la VR debba tener conto della cultura esistente e che non debba essere avulsa dal contesto in cui si opera, che la medesima valutazione debba essere necessariamente oggetto di comune conoscenza in azienda,  e che possa tener conto di  tutte le possibili sorgenti di generazione ed emissione di inquinanti nei diversi scenari. Con la valutazione  dovrebbero essere note le modalità di propagazione degli agenti di rischio e tenute presenti le modalità e possibile entità di esposizione e devono essere considerati  rischi e situazioni di interferenza. In alcuni casi sono stati studiati e proposti algoritmi allo scopo di celerizzare e semplificare l’approccio valutativo  (specie per amianto e prodotti chimici pericolosi) ma non sempre con tali sistemi si concretizza la completezza delle acquisizioni,la riproducibilità da parte di valutatori diversi, la comprensibilità, dipendendo la pratica anche dall’esperienza dei valutatori. Ed è anche corretto dire che la procedura  valutativa oggi, per essere realistica in relazione alla molteplicità dei rischi esistenti  deve essere INTERDISCIPLINARE dal momento che  la complessità  delle noxae fisiche, biologiche, chimiche, organizzative, ed il collegamento  con situazioni strutturali spesso complesse, impongono un approccio non solo multidisciplinare cioè da parte di più professionalità ma anche integrato. La procedura valutativa deve oggi essere ESPERTA, frutto di osservazione, riflessioni e ipotesi di verifica conseguenti, alla luce della professionalità di chi la effettua, dell’esperienza, all’aggiornamento, ed alla tecnica e deve poter considerare tutti i rischi – nessuno escluso – che possono ragionevolmente essere presenti nell’ambiente di lavoro.

Numerosi ed accesi dibattiti  alla fine del secolo scorso e fino alla emanazione del Dlgs 626/94 erano in qualche modo focalizzati sul numero e sulla rilevanza delle inadempienze alle norme di prevenzione in tutti i settori (specie nello stato) e all’epoca vi erano seri  dubbi  negli  operatori della prevenzione – nonostante le esplicitazioni comunitarie – su come si potesse considerare una valutazione di “rischi residui”  attesa la generale complessa e  pressocchè ubiquitaria inadempienza alle “basilari e minimali” norme penali. Di modo che , occorrendo migliorare  ambienti e condizioni di lavoro, in non pochi casi furono incluse nella temporizzazione e negli scadenzari dei “miglioramenti futuri” anche  bonifiche di situazioni critiche ed antigiuridiche… espresse nel documento e con liste di controllo. Timori in parte ancora attuali se si osserva la  situazione degli edifici scolastici e di molte strutture della PA che ha peraltro ritenuto, in almeno una decina di casi  , di giustificare anche esperienze di vigilanza “riservate” che hanno costituito ulteriori aggravi economici  e complicazioni in tema di uniformità di offerta prevenzionistica

L’esperienza successiva (e le precisazioni normative e giurisprudenziali  succedute) ci hanno fatto comprendere come la VR debba in realtà  comprendere – ad esempio – anche una analisi dei rischi di interferenza con il territorio (rischio sismico, rischio idrogeologico, impatto delle infrastrutture, eventuale allocazione di stabilimenti ad alto rischio che possono avere riflessi in tema di sicurezza, emergenza o impatto) mentre la fatica fisica (che rientra tra “tutti” i rischi) è ancora spesso un rischio trascurato, dal momento che i valutatori si soffermano piuttosto sugli effetti della medesima ovvero su problemi collegati al sovraccarico di particolari organi ed apparati le cui lesioni sono di recente attualità come la movimentazione dei carichi (rischio per l’apparato osteoarticolare) o i movimenti ripetitivi degli arti. E poi, la VR dovrebbe considerare – ove esistenti – lavori particolari come quelli in ambienti confinati, nei cassoni ad aria compressa, lavori telefonici, in sotterraneo, in miniere o cave, lavori ferroviari ponendosi attenzione ai gruppi  di lavoro esposti a rischi particolari (e vi considera ANCHE ma non solo lo stress lavoro correlato) le donne, i lavoratori meno abili, il personale straniero se differenziato per  comprensione del linguaggio  o altre caratteristiche socio-occupazionali, gli anziani , ecc.

Occorre considerare però che vedere o pensare il processo valutativo solo come atto iniziale e finale non consente una vera partecipazione degli attori aziendali: in realtà, la “valutazione di processo”  è la strumentazione che indica la rotta ma è anche una chiave di lettura e un’occasione per una prima riflessione sui risultati (output e outcome). Tale atto (valutazione di processo) spesso presenta carenze nelle documentazioni aziendali, eppure è la dimostrazione dell’attività partecipata e serve a comprendere se il progetto ha probabilità di raggiungere gli obiettivi e se sono necessari miglioramenti/cambiamenti. È una attività che avvicina la “valutazione  dei rischi” ai livelli di qualità e pone – ove inesistente – interessanti interrogativi  sulla “credibilità stessa della valutazione”. Infatti  fornisce  indicazioni e risposte ad es. se le attività realizzate sono conformi a quelle progettate, se le risorse materiali e finanziarie sono sufficienti e coerenti, quali caratteristiche (ambiente, organizzazione, operatori e target) facilitano o ostacolano il progetto che potrà slittare o realizzarsi nei tempi indicati. Infine, aiuta comprendere se  gli operatori, gli utenti sono soddisfatti, se il progetto si sta avvicinando agli obiettivi e quali aspetti si stanno rivelando più utili, se e quali cambiamenti si stanno verificando.

La valutazione deve poi essere efficace (e occorre dimostrarlo). Si devono  quindi utilizzare nella valutazione di risultato, indicatori di outcome (cioè se se e come l’intervento ha avuto peso nel ridurre i bisogni di partenza) e di output (efficacia dell’intervento, efficienza e rapporto costi-benefici).

 

ERRORI NELLA VALUTAZIONE DEI RISCHI

Le prime “linee guida” per la valutazione dei rischi sono state prodotte negli anni 1990, in seguito all’emanazione del precedente D.Lgs. 626/1994. Esse avevano l’intento di guidare al controllo esaustivo dei rischi, ma, secondo alcuni esegeti della prevenzione [24] miravano esclusivamente alla prevenzione secondaria, ignorando totalmente la prevenzione primaria. Data la fonte istituzionale (e il riferimento legislativo) di tali istruzioni, le imprese che le seguivano potevano ritenere d’aver assolto, per ciò stesso, gli obblighi di legge. Ciò rischiava di indebolire il dibattito riguardante l’interpretazione delle norme e comunque le pratiche delle imprese, spesso apparivano allontanarsi  anche dalla prevenzione secondaria perché le piccole e medie imprese fidavano sulla assai bassa probabilità di controlli , e  le grandi imprese calcolavano che le ammende costavano meno del rispetto delle norme. Infine  le une e le altre si appoggiavano sulle auto-certificazioni previste dalla legge. Oggi la situazione, per certi versi ancora problematica nelle piccole e medie imprese, si giova tuttavia di un consistente movimento ideologico che tende a realizzare “realmente”  attività di prevenzione efficaci specie dopo la  evoluzione “valutativa”, imposta dall’obbligo di analizzare le situazioni disfunzionali causa di stress lavoro-correlato. Si tratta di un passo in avanti ,forse lento ma consistente nel miglioramento “evidence based” della prevenzione. In ogni caso persistono ancora errori e ritardi e, allo scopo di fornire esempi ed indicazioni più esaustive  e pratiche della trattazione “tradizionale”, si è ritenuto di citare brevemente alcuni errori da evitare – e di frequente evidenza-  in tema di valutazione dei rischi.

Il primo problema che generalmente si affronta in un discorso organico sulla realizzazione della prevenzione, è quello relativo alla mancata divulgazione, discussione e partecipazione del documento di valutazione dei rischi in azienda. Questo non è percepito spesso come “documento guida e di riferimento” da aggiornare, consultare ed arricchire, ma piuttosto come un mero adempimento formale più utile a salvaguardare dalla  vigilanza che a modulare le attività in particolare di prevenzione e sicurezza.

Spesso, in una ottica di riduzione dei costi si incaricano della incombenze valutative  persone incompetenti, oppure  non vengono fornite informazioni, formazione, risorse,  tempo e supporto necessari , oppure non si assicura un adeguato coordinamento tra valutatori di aziende diverse che operano nel medesimo luogo di lavoro.

Errori di pianificazione possono occorrere ove non vengano coinvolti nella valutazione persone o lavoratori dotati di  conoscenze pratiche dei processi o delle attività  in  valutazione. Talune tipologie di rischio possono essere sottovalutate come i  fattori psicosociali e organizzativi [23] oppure, attenendosi rigidamente a una lista di controllo possono essere considerati soltanto i pericoli menzionati nella lista di controllo e non si tiene conto  di come i lavoratori interagiscono con i pericoli in concreto. Talvolta, la valutazione e rivalutazione di un rischio puo’ creare un falso senso di sicurezza dal momento che il fatto di aver individuato un rischio non significa che tale rischio sia stato eliminato dall’ambiente di lavoro o sia tenuto sotto controllo. Spesso l’implementazione delle misure di prevenzione non figura tra le priorità ed il piano d’azione non specifica: quali misure adottare, le persone responsabili che attuano determinate misure e le relative scadenze, il termine finale di implementazione, non  si sovrintende all’attuazione di interventi o vi è mancata consultazione coinvolgimento dei lavoratori”. Nella fase di “management ” vengono talvolta tralasciate  le specifiche di riesame e revisione della valutazione dei rischi oppure  non ci si assicura che le misure di prevenzione e di protezione  rispecchino i risultati della valutazione dei rischi. In molti casi possono non essere ben controllate   le misure adottate per verificarne  l’efficacia nel tempo dopo la prima attuazione di parziali bonifiche o ancora  non sono informati i lavoratori e/o RLS sui risultati della valutazione dei rischi e le misure adottate.

Si deve  tenere presente – in proposito a quanto detto – che in una recente indagine in 75 aziende del Lazio , si è constatato che la valutazione dei rischi non era sottoposta a riesame ed aggiornamento frequenti e risultava  anche scarsamente consultata dai lavoratori [23].

 

CONCLUSIONI

Il processo valutativo sui rischi da lavoro era in nuce già dal 1956 nel nostro Paese con l’emanazione delle prime norme antinfortunistiche e di igiene del lavoro (art. 4, DPR 303/56). La conoscenza dei rischi da lavoro è stata amplificata dalla presa di coscienza dei lavoratori nel periodo degli anni 1960-80 ed ha avuto come punto di forza lo Statuto dei Lavoratori. Alcuni Enti (ENPI in particolare, associazioni di Patronato, SMAL, talune Università) hanno sviluppato modelli di risposta alle crescenti necessità conoscitive ma solo con il Recepimento delle prime Direttive CE e dal 1991 si è iniziato a trattare nel mondo della prevenzione di un processo articolato, univoco, strutturato  per procedere ad una valutazione dei rischi adeguata alle moderne esigenze di tutela. Tale processo si è amplificato ed è migliorato progressivamente nel tempo. Vi sono stati diversi fattori importanti nella evoluzione interpretativa e nel miglioramento della conoscenza dei rischi: la giurisprudenza, l’evoluzione delle conoscenze, le statuizioni di Organismi Nazionali ed Internazionali, l’attività dell’ISPESL, delle  le Regioni, la pressione sindacale, il recepimento di norme e Regolamenti (REACH e CLP) e gli Accordi Europei quale quello sullo stress lavoro correlato. Tuttavia, nonostante gli indubbi miglioramenti conseguiti, persistono ancora situazioni – specie nelle PMI e nel settore pubblico- che necessitano di attento monitoraggio e costante impegno per quanto riguarda la prevenzione.

In definitiva occorre necessariamente chiarire che :

  1. La normativa italiana comprende nel tema trattato all’art 28 del dlgs 81/2008 e s.m.i. (oggetto della valutazione) anche aspetti che – sotto il profilo concettuale – appartengono anche al risk management come ad esempio l’indicazione delle misure di prevenzione  e di protezione  attuate e dei DPI adottati nonche’ ( comma 2 lettera “c” art 28) il ”programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza. E del resto, allo stesso ambito appartiene quanto espresso successivamente (comma 2 lettera “d” art 28) e cioè “l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale  che vi devono provvedere”.
  2. Il documento di valutazione ,secondo il Legislatore, dovrebbe essere   costantemente aggiornato,  e dovrebbe costituire  il “libro principale” cui devono fare costante riferimento per le procedure, le disposizioni, le informazioni, tutti gli attori del sistema prevenzione in azienda. Quindi, dovrebbe essere frequentemente consultato, e dopo ogni evento avverso o incidente la valutazione dovrebbe essere riesaminata e – giovandosi  dell’effetto didattico dell’infortunio occorso – si dovrebbero prevedere ulteriori miglioramenti delle condizioni di sicurezza di modo che non si ripresentino più gli eventi sfavorevoli occorsi.
  3. Il documento deve giovarsi di persone esperte, deve essere “partecipato”, illustrato, reso noto e  deve essere frutto di consultazione e partecipazione con i lavoratori e con diverse figure aziendali che hanno compiti di prevenzione (datore di lavoro, dirigenti, preposti, RLS, lavoratori, RSPP, medico competente).

 

BIBLIOGRAFIA

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18 – DECRETO DEL MINISTERO DELLA SANITÀ 17 gennaio 1997, n. 58  “Regolamento concernente l’individuazione della figura e relativo profilo professionale del tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro”.
19 -DECRETO 29 marzo 2001  “Definizione delle figure professionali di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive


Foto in copertina: Orville In Bike Shop di Wright brothers – Library of Congress | Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons

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