Cinque percorsi di lettura degli Open data INAIL è il titolo di un documento per alcuni versi sorprendente redatto dalla Consulta interassociativa italiana per la prevenzione (Ciip). Gli esperti [1] della Consulta hanno individuato cinque temi utilizzati come filone di lettura e interpretativi degli open data INAIL: Tassi grezzi per comparto produttivo (Ateco), Quanti sono gli infortuni mortali?, Problema di equità per la tutela delle malattie professionali, Riconoscimento dei mesoteliomi, La mancanza di tutela per i tumori professionali. Già i titoli aprono a evidenti criticità che emergono dalla lettura dei dati e che si vuole evidenziare.
Per il primo dei temi i suggerimenti interpretativi sono relativi a un corretto utilizzo del sistema di lettura dei tassi (numero degli infortuni ogni mille addetti), utili sia per non incorrere in errori di confronto territoriale che non tenga conto ad esempio delle caratteristiche di rischio dei diversi settori, sia per comprendere le eventuali differenze territoriali di uno stesso settore.
Quanti sono gli infortuni mortali?
Ma già il secondo tema dà un quadro del nesso eventi denunciati/riconoscimenti che ci sorprende, pur sapendo da sempre, avendolo costantemente denunciato come Patronati e Organizzazioni sindacali, che l’iter dei riconoscimenti INAIL è penalizzante. Denuncia quest’ultima che è stata indirizzata forse prevalentemente alla gestione delle malattie professionali piuttosto che degli infortuni.
Dalla lettura degli open data INAIL, con riferimento agli infortuni mortali, emerge che su 1.187 casi denunciati nel 2023, 569 casi (48%) non sono riconosciuti dall’ INAIL, cioè “non sono stati giudicati come decessi per causa di lavoro”. Dei 618 casi riconosciuti il 50%, ovvero 314 casi, sono dovuti a incidenti stradali sia in orario di lavoro che in itinere.
Quali sono le ragioni dei mancati riconoscimenti? si chiedono gli autori del documento.
La domanda che nessuno si fa riguarda l’alta percentuale di casi non riconosciuti, ben il 48%, quasi un caso su due. Possibile che si tratti per lo più di coincidenze, cioè di decessi avvenuti fuori dei luoghi di lavoro e per altre cause?
Per quanto riguarda le ragioni del mancato riconoscimento, sempre fonte gli open data, per il 70% dei casi viene riferito che la morte non è riconducibile all’evento. Si presume che per evento si intenda l’incidente. Si ritiene che questo possa accadere quando la morte avviene dopo un certo periodo dall’incidente, cioè non si ha l’immediato decesso. Però questo non basta a spiegare un numero così elevato di morti non riconducibili all’evento. Una percentuale significativa, 10,9%, di non riconoscimenti è la carenza di documentazione valida: ci si chiede come possa accadere una simile evenienza viste le indagini approfondite che vengono generalmente svolte in caso di infortunio mortale, dalle Asl e anche da altre istituzioni, come ad esempio Carabinieri e Polizia.
I dati si commentano da soli: un evento mortale su due non viene riconosciuto dall’Istituto, una situazione intollerabile che forse non è così ben evidente neanche a chi ha il compito di tutelare gli interessi dei lavoratori o, molto più probabilmente, la vera difficoltà sta nel riuscire a mettere in discussione le procedure consolidate dell’Istituto. Una difficoltà quasi insormontabile che solo una volontà politica, univocamente indirizzata, che coinvolga il Ministero del lavoro[2], i vertici dell’Istituto, il Civ dell’INAIL e le parti sociali potrebbe superare.
Problema di equità per la tutela delle malattie professionali
Terzo tema i riconoscimenti delle malattie professionali: l’esordio del capitolo apre subito alla gravità del problema.
Due cose colpiscono nel quadro di insieme: l’aumento significativo delle denunce, e al contrario la riduzione della quota di malattie riconosciute da INAIL. Inoltre, il numero delle denunce varia significativamente da regione a regione così come la quota dei riconoscimenti che negli anni dal 2019 al 2022 possono variare del 23% al 60% delle denunce. Si ritiene che ci siano alcune modalità di trattamento dei casi che giungono ad INAIL, che inducono ad archiviare le denunce ritenendole non di origine professionale.
La prassi seguita dall’Istituto, come testimoniano i patronati, è incentrata quasi esclusivamente sull’esame del Dvr, sia per le malattie professionali tabellate che non, se non c’è da sostenere per le tabellate l’onere della prova del nesso causale fra esposizione e malattia è però necessario dimostrare, sempre e comunque, l’esistenza della esposizione. Concetto non sbagliato se l’impegno dell’Istituto non si limitasse all’esame del Dvr ma con tutti i mezzi disponibili, incluso il sopralluogo in azienda, approfondisse il caso.
I limiti di questa procedura sono evidenti l’azienda può non rispondere e non inviare il documento, oppure il documento può essere evidentemente inadeguato come, ad esempio, quando nega rischi noti per determinate mansioni (nessun rischio di Mmc e di sovraccarico biomeccanico per manovali o muratori!). Le carenze del Dvr possono essere diverse: un documento formale e non rappresentativo delle condizioni aziendali reali, definendo bassi anche quei rischi che non lo sono.
Se il lavoratore con il supporto dei patronati fa opposizione all’archiviazione della denuncia si avvia un’istruttoria che presenta limiti grossolani, come ben descrivono gli esperti della Consulta:
Nell’istruttoria non si considera né l’anamnesi del lavoratore, né i rischi evidenziati dal medico competente nell’avvio della sorveglianza sanitaria, i dati presenti nell’Allegato 3B, il registro degli esposti, le relazioni ai sensi della L. 257/9, e tanto meno accertamenti più approfonditi presso l’azienda o presso i Servizi Pasl delle Asl e i Re.Na.M. È sempre il lavoratore, attraverso i propri consulenti in genere i medici del patronato, che deve cercare le “prove” della propria pregressa esposizione ai rischi professionali. E solo raramente viene fatta da INAIL una rapida ricerca, attraverso i loro archivi facilmente consultabili, ad esempio, attraverso i Flussi Informativi INAIL Regioni, per verificare se nella stessa azienda vi siano altri casi di malattia professionale a carico di altri lavoratori, condizione che sarebbe a favore dell’origine professionale della malattia in discussione.
Questa povertà di accertamenti in sede di definizione dei casi non ha alcuna motivazione se non quella di tenere il più basso possibile il numero delle malattie professionali riconosciute che sembra essere il principio ispiratore delle procedure dall’Istituto pur sapendo, colpevolmente, che solo quando crescono i riconoscimenti rispetto a uno specifico rischio, quello riceve maggiore attenzione, anche da parte dell’organo di vigilanza, e partono le azioni preventive a livello aziendale.
Riconoscimento dei mesoteliomi
Il quarto e il quinto tema che trattano rispettivamente del riconoscimento dei mesoteliomi e dei tumori professionali, lasciano veramente senza parole per la gravità del danno, che i lavoratori in questo caso hanno subito e denunciato, e per il modus operandi dell’Istituto anche in questo caso burocratico-procedurale.
Da letteratura consolidata, citata anche dal Dipartimento di Epidemiologia dell’ INAIL, la frazione attribuibile a cause lavorative dei mesoteliomi è altissima, al 97% per gli uomini e a poco più dell’82% per le donne (che però rappresentano pochissimi casi denunciati). A fronte di questo dato non contestato, l’ INAIL riconosce soltanto il 65% dei mesoteliomi.
Vi sono quindi lavoratori a cui viene riconosciuta la malattia ma non viene riconosciuta l’esposizione e quindi nessun tipo di riconoscimento e risarcimento: una condizione che si configura come una vera e propria “ingiustizia sociale” dovuta alla scelta del legislatore di utilizzare “stretti criteri di medicina legale per il riconoscimento dei danni da lavoro”, ovvero la prova dell’esposizione, che non sempre è possibile a causa del passare degli anni o delle diverse esposizioni in diversi contesti di lavoro.
Avere o meno una prova, certamente ha valore in un processo, ma non può valere in termini di giustizia sociale, che è anche uno dei compiti più importanti del sistema di previdenza sociale di cui fa parte INAIL.
Risarcire tutte le vittime da mesotelioma, porterebbe a un errore del 3%, mentre l’adozione di criteri di medicina legale porta a errori del 33%.
La mancanza di tutela per i tumori professionali
Le criticità relativamente ai riconoscimenti dei tumori che gli esperti evidenziano sono ancora più drammatiche:
Le tabelle INAIL contengono il riconoscimento della correlazione con il lavoro di una varietà di tumori professionali, tuttavia, nella realtà, la mancanza di tutela dei tumori, esclusi i mesoteliomi, è pressoché totale. Di nuovo ci troviamo di fronte a un fallimento di un importante obiettivo di tutela dei lavoratori.
In Italia i tumori professionali riconosciuti ogni anno, non asbesto correlati, sono soltanto 200, di questi la quasi totalità sono tumori al polmone, e già solo per questa specifico caso ”i numeri sono lontanissimi da qualsiasi stima di frazione lavoro correlata.” Considerando i 200 casi riconosciuti per tutti i tumori professionali, gli esperti della Consulta dichiarano:
…con un numero così basso di casi riconosciuti, rispetto alle stime dei tumori attesi come frazione lavoro-correlata dei tumori nella popolazione in generale, possiamo senz’altro concludere che i tumori professionali sono quasi completamente sconosciuti.
Un esempio clamoroso: i tumori alla vescica
- I tumori alla vescica hanno una stima di frazione lavoro correlata dell’8% rispetto a tutti i tumori alla vescica della popolazione in generale che sono pari a circa 29.000 casi all’anno.
- Sarebbero attesi dunque, considerando l’8%, circa 2300 casi di tumori professionali alla vescica all’anno.
- Mentre assistiamo a soli 10 casi riconosciuti in cinque anni.
- In cinque anni dovrebbero essere oltre 10.000.
Di fronte a questo disastro nella gestione dei riconoscimenti dei tumori professionali, da sempre denunciato dal sindacato, dai patronati ma anche dagli operatori dei Servizi delle Asl, gli esperti della Consulta suggeriscono azioni dettate dal buon senso e dalla perfetta conoscenza degli strumenti di pianificazione disponibili: azioni sicuramente efficaci se praticate da più soggetti nelle diverse realtà territoriali, con un’azione congiunta.
Come per i mesoteliomi è ancora più importante fare rete analizzando i casi riconosciuti: i 10 casi di tumore alla vescica non saranno molto diversi dai più di 10.000 casi attesi in cinque anni, già che sappiamo bene la loro causa lavoro correlata. Mediante i dati possiamo conoscere le sedi INAIL che li hanno riconosciuti, è possibile acquisire i fascicoli anche in sede pregiudiziale, analizzarli e utilizzarli come precedenti per favorire il riconoscimento di nuovi casi.
La lettura dei dati in questo caso non si limita a fornire un quadro interessante da illustrare con una bella slide in un convegno, ma può divenire il punto di partenza, la base conoscitiva da condividere per sbloccare, dati alla mano (forniti dallo stesso Istituto), le resistenze dell’Ente assicurativo.
NOTE
[1] A cura di Battista Magna, Giovanni Falasca, Susanna Cantoni, Laura Bodini Gruppo sistemi informativi Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione.
[2] L’INAIL è sottoposto alla vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali,