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Gli elementi identificativi del mobbing secondo la Corte di Cassazione Civile

Decreto legge 32 2019

Con  la  recente  sentenza n. 20230/14  pubblicata  il  25 settembre  2014, la  Corte di Cassazione – Sezione lavoro è intervenuta nuovamente per definire il perimetro del “mobbing” argomento di grande attualità non sempre percepito dagli utenti della giustizia in linea con i presupposti richiesti nei giudizi  incardinati davanti al Giudice del lavoro.

Da quanto si può evincere dalla sintesi dello svolgimento del processo riassunto nella sentenza oggetto di commento, la fattispecie introdotta dal ricorrente prima  nei gradi di merito poi in sede di legittimità, riguardava avvenimenti e comportamenti del datore di lavoro denunciati come persecutori che né il Tribunale di Roma, né la Corte territoriale, avevano considerato integrare l’ipotesi di mobbing in assenza della prova del collegamento tra la condotta datoriale e l’intento finalistico di risolvere il rapporto, difettando, altresì, la prova del  nesso di causalità tra la pretesa condotta persecutoria e l’integrità psicofisica del lavoratore.

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L’importanza della sentenza, al di là della disamina delle questioni di rito concernenti le modalità di formulazione della domanda introduttiva del giudizio e dell’onere probatorio che grava sul ricorrente (il lavoratore) che ne allega i fatti storici costitutivi, risiede nella puntualizzazione di concetti di diritto sostanziale già noti agli operatori del diritto (vedi il puntuale richiamo  alla  Corte cost. sentenza n. 359 del 2003; Cass. sez. lav. 5 novembre 2012, n. 18927) riassunti efficacemente nella seguente definizione: “è jus receptum che il mobbing è una figura complessa che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, designa (essendo stato mutuato da una branca dell’etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Passando poi dalla definizione del concetto giuridico alla sfera più concreta dell’attività giurisdizionale che, quotidianamente, svolgono le sezioni lavoro dei tribunali italiani, la Suprema corte, in estrema sintesi, ha così indicato i diversi elementi che devono ricorrere congiuntamente per la configurabilità del mobbing lavorativo: “a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio — illeciti o anche leciti se considerati singolarmente — che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; e) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass. 21 maggio 2011, n. 12048; Cass. 26 marzo2010, n. 7382)”.

Alla stregua delle rigorose indicazione offerte dalla Corte di Cassazione che non lasciano spazi di interpretazione in ordine ai presupposti (indefettibili) per l’accoglimento di una domanda giudiziale volta a far riconoscere il mobbing lavorativo, lo scrivente consiglia di incardinare la causa solo dopo  aver attentamente vagliato  sul piano probatorio  la possibilità di fornire  prova conforme dei fatti allegati sia per le condotte vessatorie, sia del danno alla salute e soprattutto  del rapporto causa-effetto con i lamentati comportamenti antigiuridici.

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