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Industria 4.0? Il cuore non è la fabbrica…

Come abbiamo annunciato nell’ultimo Angolo Acuto del 2017 (L’IQ e il 2018), quest’anno intendiamo aprire una finestra sull’IQ, cioè sull’Innovazione e sulla Qualità dei processi e dell’organizzazione, un concetto che plasma in modo sempre più decisivo il mondo della produzione e dei servizi.
I cambiamenti ai quali assistiamo nel mondo del lavoro appaiono di difficile assimilazione, spesso contrassegnati da difficoltà gestionali. Mentre si cercano le soluzioni per affrontarli, ecco che ne sopraggiungono di nuovi, in un susseguirsi di ondate innovative sempre più ravvicinate.  Non è un caso che gli studiosi parlino sempre meno di cambiamento e sempre più spesso di “mutamento”: intendono dire che non si tratta di un processo di sostituzione, ma di una vera e propria trasformazione, di una metamorfosi.
È un processo di trasformazione legato all’evoluzione, al pari di un girino che diventa rana oppure un bruco che diventa farfalla. La possibilità di trasformazione è già presente nel DNA di questi animali, e nonostante questo ne modifica profondamente la struttura e il punto di vista. Una farfalla può volare ed avere una visione del mondo più ampia di quella che aveva come bruco: la trasformazione amplia le sue possibilità.
La differenza con gli esseri umani è che questi non hanno un percorso già programmato, né una direzione certa verso la quale dirigersi. Il futuro si preannuncia troppo diverso dal passato che abbiamo conosciuto per affidarci solo all’esperienza. Abbiamo bisogno di orientamento e di strategie. Questo, malgrado i tanti stimoli che ci invitano a chiuderci e a serrarci dentro le mura delle nostre certezze, non potrà avvenire se non aprendoci alla ricerca, al dibattito, al confronto. In questo momento nessuno ha una strategia compiuta e una ricetta pronta da seguire. È anche una chance per tutte le aziende e i Paesi che vogliono crearsi un futuro e non farselo imporre.
Repertorio Salute si propone di essere dentro a questo flusso di novità, senza la presunzione di essere una fonte decisiva o esaustiva. La Redazione cercherà, come sempre, i migliori contributi e li proporrà alla lettura e al vaglio dei nostri lettori, aperti a critiche, obiezioni, contributi e ai racconti di esperienze provenienti dalle aziende. Cominciamo proponendovi un articolo tratto dalla rivista on line Industria Italiana, che alcuni di voi già conosceranno.


fonte: Industria Italiana, articolo di Marco de’ Francesco
Investire non solo nei robot, ma nell’intangibile, l’interazione dei dati. Perchè determinante  non sarà il prodotto, ma la servitizzazione. Cioé l’ecosistema digitale. È la ricetta di Carlo Alberto Carnevale Maffé (Bocconi) per trasformare il Made in Italy in Made to Serve

Se il punto è la fabbrica, è comprare macchine digitalizzate, le aziende italiane sono cadaveri ambulanti. Quelle asiatiche, infatti, fanno quattro volte e mezza gli acquisti europei. Ma per fortuna il punto del 4.0 non è questo. In un mercato orientato ai servizi, il prodotto è pensato per essere “servito”. E tutta l’organizzazione diventa una service factory. È la fabbrica dello sviluppo: in tutte le economie avanzate, i servizi rappresentano dal 70% all’85% del Pil.

Se però osserviamo il livello di adozione delle nuove tecnologie nei singoli ambiti di applicazione, notiamo che in Italia questo è molto alto nella produzione, un po’ meno nello sviluppo, basso nel commerciale e ancora più basso nei servizi. Dunque dobbiamo cambiare strada, perché rischiamo di percorrere quella sbagliata. Si deve investire non sull’hardware, ma sull’intangibile. Appunto perché il cuore del mondo 4.0 non è la fabbrica, ma è l’ecosistema digitale esteso a monte e a valle: la nuova moneta è il dato, il linguaggio giusto è quello formale della programmazione. E la servitization è un atto di maternità organizzativa, è un impegno permanente e irrevocabile. Industria Italiana ha voluto approfondire con Carlo Alberto Carnevale Maffé, docente di strategia e politica aziendale SDA Bocconi, tutti  questi temi, già oggetto di un recente incontro organizzato da Kpmg presso la sede di Monza di Assolombarda, dal quale sono tratte alcune delle affermazioni contenute qui, poi ulteriormente approfondite.

La sfida della “servitization”: verso l’ecosistema digitale esteso

Non è una cosa che si vende sul listino, il 4.0, neanche con l’Iperammortamento: è un percorso imprenditoriale, e al contempo una sfida culturale e organizzativa. Si parla di “servitization”: non è più l’oggetto in sé quello che si vuole, ma si cerca il servizio che questo può offrire. Il 4.0, poi, riguarda le persone, i processi, le provvigioni e le prospettive; e questo perché non è solo fabbrica, ma un ecosistema digitale esteso. Quanto alle persone, il 4.0 è premessa per il dialogo industriale, non solo commerciale.

Carnevale Maffé snocciola nuovi ruoli emergenti in azienda: «Il direttore del dialogo, il direttore operativo all’interoperabilità, il capo della disruption digitale. E se trovate solo ingegneri snob e con la puzza sotto il naso, prendete un perito e formatelo. Riempitegli la valigetta non con prodotti da vendere ma con impegni agli standard e all’interoperabilità». Quanto ai processi, il 4.0 è una conversazione sui confini del business. «Si tratta – continua Carnevale Maffé – di un cambiamento radicale della sintassi del linguaggio organizzativo. Non basta parlare l’inglese o il cinese; da un punto di vista formale, bisogna invece conoscere i linguaggi di programmazione, per esporre i dati in logiche interoperabili. I dati vanno scambiati, ed è questo un elemento più importante della automazione della fabbrica».

Il 4.0 è un nuovo assetto istituzionale. «Con il 4.0 – continua Carnevale Maffé – scriviamo un patto di cittadinanza; siamo trasparenti e responsabili. È un atto molto importante, dal punto di vista confindustriale». Ma perché provvigioni e prospettive? «Perché – afferma ancora Carnevale Maffé – si passa dalla vendita alla rendita. Non si tratta, infatti, di installare robot per manipolare i pezzi; ciò che installiamo, in definitiva, è un assetto organizzativo diverso. Non trasferiamo la proprietà di beni e servizi, ma mettiamo in funzione un’infrastruttura organizzativa nuova». In questa logica, il focus si sposta dal prezzo al servizio: i prodotti personalizzati non hanno un prezzo di listino, ma hanno specifiche spesso non comparabili e quindi non confrontabili in quanto fatte su misura per i processi del cliente.

La prima metafora. Invertire il flusso per ascoltare i dati: il caso del Chicago River

«Un esempio per comprendere il 4.0 – continua il docente – è quello del fiume di Chicago. Questo, infatti, non scorre dalla terra al lago, ma dal lago verso l’interno. Gli americani hanno invertito il flusso, nel 1907; e ciò perché la forte immigrazione aveva creato una specie di grande fogna, una cloaca. Ora è il lago che alimenta la città». Che cosa si intende dire? Che c’è un passaggio fondamentale che le aziende sono chiamate a realizzare. «Il 4.0 – spiega Carnevale Maffé – non è la cloaca massima dei nostri disordini organizzativi; è anzi un modo per ascoltare il grande lago dei dati». Funzione propria del 4.0 è appunto l’analisi delle informazioni provenienti da prodotti, processi e dall’intero ecosistema.

La seconda metafora: lo scarabeo e l’interpretazione dei messaggi
Anzitutto lo scarabeo è un gioco: si tratta di comporre parole in senso compiuto estraendo lettere a caso da inserire in caselle predefinite. «Il 4.0 – continua il docente – è il passaggio dalle lettere a silos, una sopra l’altra, a una disposizione multi-channel. Se ci pensiamo, infatti, sono più di 20 anni che disponiamo di macchine digitali; prima, però, non parlavano, non erano leggibili. Ora, nell’ecosistema 4.0, si tratta di decodificare i messaggi che derivano dai dati, di ascoltare le macchine che parlano nei loro processi. Insomma, non basta raccogliere le informazioni: bisogna interpretarle sintatticamente».

La terza metafora: il sottomarino

La tecnologia serve per emergere, per diventare visibili e interoperabili. «Invece – continua Carnevale Maffé – il rischio è quello di non saper interpretare i dati provenienti dall’ecosistema e di isolarsi. Si finisce così nello “Yellow Submarine”: ogni tanto si tira su il periscopio per vedere come butta; ma con l’idea che la tecnologia serva per rimanere affondati. Il futuro della robotizzazione industriale a 360 gradi è invece l’organizzazione digitale dei clienti, attraverso algoritmi e tecnologie della conoscenza. In un certo senso, perciò, il robot più importante da affittare è il cliente». La nuova organizzazione dei processi, cioè, è estesa a monte e a valle.

Il 4.0 riguarda i confini dell’organizzazione, non solo la fabbrica in sé

Se osserviamo il livello di adozione delle nuove tecnologie nei singoli ambiti di applicazione, notiamo che è molto alto nella produzione, un po’ meno nello sviluppo, basso nel commerciale e ancora più basso nei servizi. Per esempio, se prendiamo in considerazione la meccatronica, il livello generale è pari al 50%; ma la quota di adozione è assai diversa nelle quattro attività correlate: 69% nella produzione; 43% nello sviluppo; 12% nel commerciale e 11% nel servizio. Il livello di adozione nella robotica, invece, è del 51%, che va così declinato: 80% nella produzione; 22% nello sviluppo; 9% nel servizio e 8% nel commerciale.

Quanto alla robotica collaborativa (11%), si osservano questi livelli: 64% per la produzione; 39% per lo sviluppo; 10%per il servizio e 7% per il commerciale. Nel caso dell’IoT (27%), domina la classifica lo sviluppo (44%), seguito dal servizio (37%), dal commerciale (35%) e dalla produzione (34%). Il servizio è importante nei Big Data (34%) e nella sicurezza informatica (56%). Ma in generale negli altri campi (cloud, stampa 3D, simulazione, nanotech e materiali intelligenti) produzione e sviluppo hanno la meglio su commerciale e servizio. «Ciò non va bene – commenta il docente – perché così il focus resta sulla manifattura, mentre il 4.0 è un discorso sui confini dell’organizzazione, sul dialogo a monte e a valle».

Puntare tutto sull’interazione digitale

Secondo il Parlamento Europeo, ci sono delle precondizioni all’implementazione di Industria 4.0. In ordine di importanza, sono la standardizzazione, l’organizzazione dei processi, la disponibilità dei prodotti, i nuovi modelli di business, la sicurezza, la disponibilità di lavoratori competenti, la ricerca, il training e il legal framework. In questo contesto, automazione e robot sembrano meno importanti. «Il fatto – continua il docente – è che non possiamo battere gli asiatici sul numero dei robot, perché hanno già vinto loro». In effetti i robot industriali in Asia crescono più del quadruplo rispetto all’Europa, e quasi cinque volte rispetto agli Usa. E la distanza tra l’Asia e gli altri continenti si incrementa di anno in anno. E allora, che si fa? «Noi – continua Carnevale Maffé – dobbiamo batterli sulla capacità di dialogo e di interazione. Il bello dell’Italia è che ha già sviluppato questa abilità nelle filiere e nei distretti, anche se solo in forma analogica. In pratica le aziende parliamo già la stessa lingua, ma ora si tratta di comunicare con il linguaggio digitale, che è poi la sintassi formale dei processi».

L’Italia è l’unico grande Paese europeo ad aver perso il Terzo Millennio sia negli investimenti che nelle esportazioni. Dobbiamo puntare sull’intangibile

Fatti 100 gli investimenti nel duemila, quelli attuali sono fra l’80% e il 90%. La Francia è a quota 120%. Fatte 100 le esportazioni 17 anni fa, ora sono fra 120% e 130%; mentre la Germania ha superato quota 210%. «Il rischio – afferma Carnevale Maffé – è quello di continuare a investire male. L’esempio della sconfitta di Milano per l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, deve far riflettere. Amsterdam è più coerente, più avanti di Milano. Che ha in effetti investito nell’hardware, nel mattone, nel Pirellone; Amsterdam ha puntato sul software, sull’intangibile. Milano ha puntato sul capitale sbagliato». In generale, al di là della questione milanese, la spesa italiana in ricerca e sviluppo sull’intangibile è la più bassa dell’Ocse; così come è molto basso il numero dei professionisti di settore. «Dobbiamo fare come fece l’Italia dopo l’Unità – afferma il docente -: 150 anni fa più del 70% degli italiani lavorava nel settore agricolo; oggi meno del 3% – eppure esportiamo cibo. Non siamo morti di fame: ci siamo reinventati un Paese completamente diverso».

Ma la fiducia è alle stelle

Gli indici di fiducia delle imprese sono per la prima volta dal 2013 tutti in territorio positivo. Quelli relativi ad imprese di consumo ed intermedi, che nel 2013 erano ben sotto quota cento, ora viaggiano attorno a quota 105. La fiducia delle imprese di investimento è passata da poco più di 90 a circa 115; quella delle imprese di costruzioni da 100 a circa 130. Il terzo trimestre del 2017 ha fatto registrare un aumento del 68% della produzione di beni strumentali e di robot. C’è una domanda in crescita sia del mercato nazionale che estero. Inoltre le condizioni per gli investimenti sono in fragile recupero in tutti i settori, dopo un decennio di marcato pessimismo. Secondo Carnevale Maffé, in Italia le aziende hanno cominciato a digitalizzare la catena del valore dall’interno: ora si tratta di salire a monte e a valle, e di digitalizzare i processi che interagiscono con il mondo esterno. «Non ci sono più scuse – afferma il docente – anche perché il vero capitale mancante non è quello finanziario, ma quello culturale e organizzativo. Le aziende hanno iniziato a meccanizzare la fabbrica; qui invece si tratta di portare il 4.0 a monte e a valle della catena del valore. Che assume, graficamente, la forma del sorriso: visto che le quote maggiori di valore aggiunto si ottengono, da una parte e dall’altra, con R&D e innovazione e con servitization e data management».

La servitization? Un atto di maternità organizzativa

In un mercato orientato ai servizi, il prodotto è pensato per essere “servito”. E tutta l’organizzazione diventa una service factory. È la fabbrica dello sviluppo: in tutte le economie avanzate, i servizi rappresentano dal 70% all’85% del Pil. Negli Usa, l’80% degli incrementi di produttività sono derivati, negli ultimi 20 anni, dai servizi. E in una economia dei servizi, tutti sono sulla front-line rispetto ai servizi. Si deve parlare pertanto di People-as-a-service. «Il cuore del mondo 4.0 – afferma il docente – non è la fabbrica. È l’ecosistema. Quindi non si deve parlare di Made in Italy, quanto di “Made to serve”. Quella dell’azienda è una promessa di servizio. Dobbiamo dare per scontata l’eccellenza del prodotto; e progettare i nostri prodotti perché siano serviti a 360 gradi 24 ore al giorno». Secondo il docente, la servitization è un atto di maternità organizzativa. «Nell’Industria 4.0 un prodotto è un figlio che non si può abbandonare – afferma Carnevale Maffé -. La paternità è talvolta un atto estemporaneo, accidentale; la maternità – culturale e organizzativa – è un impegno permanente e irrevocabile. Perché fare tecnologia è scelta di responsabilità educativa, di devozione professionale, di continuità generazionale».

Chiudiamo i negozi, apriamo le fabbriche. In un contesto in cui le dimensioni non contano

I negozi hanno vita breve, perché incombe Amazon, il negozio digitale che altrove fa strage di catene commerciali. «Ma la Factory 4.0 – continua il docente – è il luogo più bello del mondo; trasparente e responsabile, inclusivo e personalizzato». E poi il 4.0 ha abbattuto le barriere dimensionali. «Piccolo non è né bello né brutto – afferma il docente – è irrilevante. Piccola e grande impresa sono gemelli diversi dell’Industria 4.0. Chi ha i dati, partecipa al grande mercato: la scala ce la mette l’ecosistema. Chi è più veloce, arriva prima ai bordi».

Dalla digitalizzazione del dato al machine learning

La funzione della digitalizzazione non è quella di ripetere lo stesso processo, ma quella di fornire previsioni sull’andamento del processo, in modo che si possano prendere tempestivi provvedimenti per attuare miglioramenti. Servono macchine intelligenti, in grado di apprendere. Dunque il processo del machine learning contempla tre fasi: descrizione, previsione e prescrizione. E dal momento che le cose stanno così, la nuova moneta è il dato. «Le aziende devono farsi pagare il valore aggiunto con i dati – afferma il docente -. Con il 4.0 l’azienda che fornisce la macchina chiede al cliente i dati, promettendo di farne buon uso». Secondo il docente, infine, una scultura di Umberto Boccioni(“Forme uniche della continuità nello spazio”, 1913) è una metafora perfetta della sintesi organizzativa che tutti siamo chiamati a compiere in azienda nei prossimi anni. «Un ibrido di uomo e macchina, una sequenza di vuoti e pieni, di luci e ombre. E non è più futurismo: è dietro l’angolo. È bene che gli imprenditori comincino a correre».

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