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Può realizzarsi il benessere organizzativo?

Può realizzarsi il benessere organizzativo?
Relazione al Workshop Salute e sicurezza in ottica di genere e benessere organizzativo, Catania | 30 Gennaio 2015

di Daniele Ranieri 

Il benessere organizzativo o salute organizzativa, come da alcuni studiosi viene definito, non è altro che l’ampliamento del concetto di salute o di benessere dal livello individuale a quello collettivo.

Il  D.Lgs.81/08 all’art 2 lett.o) definisce la salute come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solo assenza di malattia o infermità”.

Quando si sottopone questa definizione ai Datori di Lavoro o anche agli operatori del settore, siano essi RSPP o RLS, l’opinione che si ricava è al meglio che è un obiettivo molto lontano, al peggio, come ebbe a dire un RSPP , che è “una stupidata”. Una cosa bella da scrivere e da pensare, ma sostanzialmente irrealizzabile, irraggiungibile. Un RSPP di una importante multinazionale con sede in Roma, aggiunse con franchezza: “uno stato di completo benessere non lo raggiungo neanche quando sto al mare in vacanza, figurarsi mentre lavoro”.

Inutile girarci intorno, è opinione comune che benessere e lavoro, se non in forma molto parziale od occasionale, non sono fatti per incontrarsi.

Alcuni chiedono la controprova: “esiste un posto di lavoro che l’ha realizzato ? O almeno che ci si è avvicinato?”.  Cosa rispondere ? L’Olivetti  del Movimento Comunità degli anni ’50 o il complesso di Googleplex, sede della quinta azienda mondiale per valore, Google ?

Bisognerebbe parlarne a lungo e comunque risulterebbero delle eccezioni che confermano la regola, più che la normalità, visto che non ne vengono in mente molte altre.

Eppure quella definizione riportata nell’art.2 è la trasposizione letterale del significato di salute presente nel Trattato Costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’OMS, del 1948.

E’ quindi un dato acquisito da tempo e sostenuto dall’autorevolezza del più importante organismo mondiale nel campo della salute. Non è l’invenzione estemporanea  di qualche sognatore con la testa tra le nuvole.

Eppure molti ritengono, senza dirlo ad alta voce, che “uno stato di completo benessere” non è altro che una astratta utopia sconnessa dalla concreta realtà lavorativa.

Per superare questo impasse  è necessario capire meglio cosa, l’ opinione corrente, ritiene essere  quell’attività che chiamiamo lavoro e cosa comunemente intende per benessere.

Si scoprirà così che i due concetti sono stati amputati da una parte del loro significato e di conseguenza risultano inaccostabili, in gran parte incompatibili. Andiamo per ordine.

Hanna Arendt in “Vita activa” ci spiega che uno dei termini utilizzati dall’antichità greca per indicare il lavoro era “pònos “da cui deriva la parola  italiana pena. In molti dialetti italiani si usa come sinonimo di lavorare il verbo travagliare, come per il parto.

Questo verbo deriva dal latino “tripalium” che era uno strumento di tortura molto usato dai romani. E aveva talmente colpito l’immaginario collettivo che Piero della Francesca è in grado di riprodurlo in funzione, otto secoli dopo, negli affreschi del ciclo aretino.

Il lavoro nasce quindi marchiato da un giudizio di pena e sofferenza. Il travaglio  (il lavoro per l’uomo e il parto per la donna) sono le condanne che l’umanità riceve al momento della cacciata dall’Eden.

E a distanza di centinaia di anni, il lavoro è  ancora identificato con una attività  faticosa che trova la sua giustificazione e la sua sopportabilità, per il fatto che attraverso di esso si ottiene il reddito necessario per vivere o per sopravvivere.

D’altronde non è che nei secoli si sia liberato di queste caratteristiche, basta leggere Oliver Twist di Dickens o i Miserabili di Hugo per capire quali conseguenze venivano subite dalle persone nel corso della Prima rivoluzione industriale. E anche la seconda rivoluzione quella che è sintetizzata dall’immagine della catena di montaggio fordista non è da meno. Anche qui dal film Metropolis di Lang a Tempi Moderni di Chaplin la descrizione del livello di alienazione che si poteva raggiungere risulta evidente.

Il lavoro è molto cambiato nei secoli, e sono molto migliorate le condizioni in cui lo si svolge, ma il lavoro rimane una attività faticosa e dura, per niente abbinata al benessere.

Proprio dalla metà dell’800 però inizia a farsi strada un significato diverso del lavoro che iniziando con i primi movimenti operai, passando per l’Human Relations Movement di Mayo giunge fino all’art.1 della nostra Costituzione.

Oggi sappiamo che il lavoro influenza l’individuo e lo sviluppo della sua personalità ed è l’elemento essenziale per costituire la sua identità soggettiva e il suo senso di appartenenza alla società

Scrive Dostoevskij: “Se vuoi trasformare un uomo in una nullità, non devi fare altro che ritenere inutile il suo lavoro”
L’attività che chiamiamo lavoro contiene, oggi lo sappiamo, questi due aspetti : quello di essere un impegno psico-fisico, ma anche una tappa fondamentale nel processo di costruzione della propria identità personale e sociale.

E il benessere?

Anche il benessere ha una sua duplicità di significato. In genere viene visto a livello individuale come uno star in salute, avere cura di sé e del proprio equilibrio psico-fisico e più in generale lo collochiamo nello spazio dei momenti sereni, liberi, di piacevole ozio. Nella vacanza al mare citata dal RSPP.

Anche in questa definizione di benessere si colgono alcuni suoi aspetti, ma non tutti.

Per tornare ai greci, essi ammiravano molto il pastore non per l’attività che svolgeva, la custodia delle greggi, quanto perchè aveva molto  tempo libero: “skholè” da cui deriva il latino “schola” e l’odierno scuola. Per i greci il tempo libero era dedicato alla riflessione, al sapere, all’istruzione, alla conversazione colta alla scuola  di tipo filosofico, da cui  deriva la medievale filosofia scolastica. Era skholé il tempo trascorso nella scuola Aristotelica passeggiando all’ombra dei portici del ginnasio ateniese, tra una discussione e una attività sportiva.

Visti da un diverso punto di vista i due termini, lavoro e benessere, integrati da significati più ampi perdono la loro opposizione e acquistano più di un tratto unificante, più di un elemento comune: il lavoro come spazio di ricerca identitaria individuale e sociale e  il benessere come spazio di  crescita culturale umana e anche professionale.

Riaccostando quindi i due termini, sarcasticamente divisi, incontriamo il senso concreto e non utopico del   “ benessere lavorativo”.

Ma come è possibile realizzarlo?

Torniamo ai documenti ufficiali dell’Oms e della Agenzia Europea, che definiscono il benessere  “uno stato armonico” sia fisico che mentale che  consenta “agli individui di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società” .

Qui si chiarisce un altro punto. Lo stato di completo benessere e cioé lo stato armonico fisco e mentale non sono l’obiettivo, ma il mezzo.

Facciamo un esempio per capirci meglio. Il fine di un atleta non è raggiungere un buono stato di forma, questo è ovviamente importante, ma è solo un presupposto.

Lo scopo dell’atleta è quello di gareggiare e se possibile vincere.

Quindi uno buono stato di forma ha un senso se si accompagna alla possibilità, per esempio, di poter accedere alle gare, alla selezione per le Olimpiadi e di non esserne escluso magari per pregiudizi razziali o politici o perchè non sufficientemente raccomandato oppure perchè non abbastanza omologato alla cultura e agli stili dominanti il mondo sportivo del suo Paese.

Ora abbiamo le tre componenti fondamentali di uno stato di benessere applicato al processo produttivo: un lavoro dignitoso e realizzante, svolto in un tendenziale stato di benessere che si realizza, esiste, se si danno spazi di libertà individuali e collettivi per costruirlo.

Il problema si sposta quindi sulla cultura dell’impresa, il suo orizzonte valoriale e nella sua proiezione concreta che è l’organizzazione del lavoro. Organizzazione intesa non solo come serie di procedure esecutive, ma anche come spazi di partecipazione, di autonomia, co-decisionali. Badate non nelle strategie dell’impresa, ma concentrate nell’architettura del processo produttivo, sulla progettazione ergonomica, sul come si persegue la “mission” aziendale.

Come lo star bene si ha quando è assente la malattia o l’infermità, così il benessere lavorativo lo si raggiunge quando non ci sono forme di disagio.

Il disagio lo si riconosce dal suo manifestarsi in forme “leggere” come l’insoddisfazione, la scarsa concentrazione sui compiti, la presenza di frequenti tensioni, incomprensioni, ma anche da manifestazione più serie che si concentrano in un fenomeno: lo stress o meglio la forma negativa dello stress: il distress.

Anche lo stress (chiamiamolo così per comodità) è un concetto sottoposto a una opinione comune che lo banalizza, tanto che in un Manuale pubblicato dall’Inail nel 2005 è scritto:

l’Istituto va a modificare la diffusa abitudine di considerare “lo stress” una condizione “normale”, trasversale alla vita quotidiana e all’attività lavorativa e per questo tutto sommato accettabile”.

Eliminare le condizioni stressanti, non nelle persone, ma nell’organizzazione del lavoro, è il primo passo verso il benessere. E con lo stress anche tutti i rischi psico-sociali che vengono definiti dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e Salute sul Lavoro riprendendo la definizione di due studiosi inglesi (Cox e Griffihts) del 1995:

Quegli aspetti della progettazione del lavoro e della organizzazione e gestione del lavoro e il loro contesto sociale ed ambientale che hanno la potenzialità di causare danno psicologico o fisico.

Cosa semplice da dire, ma molto più difficile da praticare. E’ esperienza comune che le aziende italiane, stando alla lettura dei loro Documenti dei rischi, sono esenti da stress.

Cosa difficile da credere  e forse, questa sì, irreale.

La strada per raggiungere il benessere lavorativo indubbiamente si presenta ancora lunga, ma siamo certi che si va diffondendo l’idea che la competizione internazionale, come sta avvenendo nella maggior parte dell’Unione Europea a 28, si vince aumentando il contenuto qualitativo del lavoro e dei processi produttivi. Più innovazioni e maggiori competenze. Più impegno e maggiore coinvolgimento e partecipazione.

Come scrisse  Aris Accornero:

Il secolo scorso è iniziato con l’idea che l’operaio non doveva pensare ed è finito con la frase “la qualità dipende da voi”.

La strada è stata quindi imboccata da tempo.

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