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Inquinamento atmosferico e Covid -19

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Su incarico dell’Envi, Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare del Parlamento europeo, il Dipartimento  per le politiche economiche  e scientifiche per la qualità della vita ha  realizzato uno studio, pubblicato nel mese in corso,  su un tema di estrema importanza e attualità che, a livello internazionale ed anche nel nostro Paese, sta facendo molto discutere: lo studio si occupa degli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute, con particolare  riferimento al Covid 19.

Il documento, elaborato per il Parlamento europeo,  oltre all’inquinamento urbano, considera anche gli elementi di inquinamento atmosferico nelle zone rurali, l’inquinamento dell’aria negli ambienti indoor, gli  aspetti di vulnerabilità e resilienza della nostra società nei confronti delle malattie respiratorie, le disuguaglianza sociali derivanti dall’inquinamento atmosferico.

“Lo studio suggerisce che l’inquinamento atmosferico aumenta l’incidenza e la gravità della malattia. Tuttavia, i dati attuali sono troppo limitati per essere certi. Soprattutto il contributo quantitativo dell’inquinamento atmosferico alla malattia è ancora molto incerto”.

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Messaggi chiave
  1. L’inquinamento atmosferico provoca malattie croniche come asma, BPCO [1], cancro ai polmoni, malattie cardiache e diabete. Molte di queste condizioni predispongono al ricovero per COVID-19, all’utilizzo della terapia intensiva e alla morte. Per questo  c’è seria preoccupazione per gli impatti negativi dell’inquinamento dell’aria sulla pandemia COVID-19.
  2. È stato dimostrato che l’inquinamento atmosferico riduce la resistenza respiratoria contro batteri e virus che provocano infezioni anche diverse dalla sindrome respiratoria acuta grave Corona Virus 2 (SARS-CoV-2). Tuttavia, stanno emergendo prove che le persone che vivono in aree ad alto inquinamento potrebbero essere  più frequentemente infettate da SARS-CoV-2 ed hanno più probabilità di sviluppare COVID-19, qualora si manifestino  dei focolai.
  3. Quasi tutti gli studi hanno utilizzato dati aggregati, ovvero dati su inquinamento atmosferico e altro fattori di rischio, con riferimento ad  aree corrispondenti a comuni/contee: è stato quindi molto difficile fino ad ora distinguere gli effetti indipendenti dell’inquinamento atmosferico dagli effetti di altre cause dei focolai di malattia. Ciò ha probabilmente portato a una sovrastima dell’effetto dell’inquinamento atmosferico sulla presenza e sulla gravità del COVID-19 negli studi fino ad oggi disponibili.
  4. Sono disponibili metodi per condurre studi molto più raffinati sul nesso tra inquinamento atmosferico e COVID-19,  ma tali studi sono più impegnativi in termini di acquisizione dei dati necessari e di gestione dei problemi di privacy. Tra un anno o poco più i ricercatori  potranno utilizzare gli strumenti più avanzati  per studiare gli effetti dell’inquinamento atmosferico: per valutare se l’inquinamento atmosferico influenza l’infezione da SARS-CoV-2 e gli esiti del COVID-19 sono richiesti dati spaziali e temporali più significativi.
  5. Una parte importante  di coloro che sono guariti dal COVID-19 ha presentato effetti avversi a lungo termine: condizioni che colpiscono il cuore, i polmoni e altri sistemi e organi. Le preoccupazioni in merito  riguardano il fatto che tali condizioni critiche  possano essere peggiorate a lungo termine dall’esposizione all’inquinamento atmosferico  perché, a breve termine, l’esposizione all’inquinamento atmosferico ha dimostrato di aumentare i ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie e problematiche  cardiache.
  6. L’impatto complessivo dell’inquinamento atmosferico sul cuore e sulle malattie polmonari croniche è più che significativo tanto  da motivare politiche aggressive di riduzione dell’inquinamento. Tali politiche che proteggono la popolazione dagli effetti dell’inquinamento atmosferico è probabile che proteggano anche dalla morte da COVID-19 imputabile all’inquinamento atmosferico.

Il tema relativo al quesito se l’esposizione a  PM [2] e ad altri inquinanti possa essere (oltre a sesso, età e alla presenza di  altre malattie quali ipertensione, diabete, malattie cardiovascolari e cerebrovascolari) un

fattore di suscettibilità per COVID-19 e/o che possa esacerbare la gravità della malattia  (ricovero in terapia intensiva o decesso)

è tema affrontato in numerosi altri studi:  ne ricordiamo alcuni.

Università di Harvard

Nello studio americano, per ciascuna delle 3000 contee degli Stati Uniti (98% della popolazione totale), sono stati recuperati i casi di decesso per COVID-19 fino al 4 aprile 2020 e le stime di esposizione di lungo termine a PM2.5, già elaborate in precedenti progetti di ricerca.

I risultati mostrano che l’incremento di 1 µg/m3 di PM2.5 è associato ad un incremento di rischio di decesso per COVID-19 pari al 15% (intervallo di confidenza: 5-25%).

Società italiana di Medicina ambientale

La Sima, dopo una prima pubblicazione  (24 settembre 2020) che evidenzia per la prima volta un’associazione tra incidenza di Covid-19 e frequenza di sforamenti di particolato atmosferico nelle città del nord Italia investite dalla prima ondata, ha annunciato la costituzione di una grande rete internazionale (denominata Rescop) per la ricerca del coronavirus Sars-COV2 sia nell’aria ambiente che nei luoghi chiusi (indoor).

ISS (Istituto Superiore di Sanità) e ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) con SNPA ( Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente)

Iss, Ispra e Snpa  hanno avviato nel mese di maggio, uno studio epidemiologico a livello nazionale per valutare se e in che misura i livelli di inquinamento atmosferico siano associati agli effetti sanitari dell’epidemia. Lo studio viene svolto in collaborazione con gli esperti della Rete Italiana Ambiente e Salute per garantire un raccordo con le strutture regionali sanitarie ed ambientali.

“EpiCovAir”: questo il nome del progetto di ricerca che ha il compito di indagare sul ruolo dell’esposizione al particolato atmosferico (PM) nell’epidemia di COVID-19 nelle diverse aree del Paese, per chiarire in particolare l’effetto di tale esposizione su distribuzione spaziale e temporale dei casi, gravità dei sintomi e prognosi della malattia, distribuzione e frequenza degli esiti di mortalità. La risposta a tali quesiti dovrebbe essere associata a fattori quali età, genere, presenza di patologie preesistenti alla diagnosi di COVID-19, fattori socio-economici e demografici, tipo di ambiente di vita e di comunità (urbano-rurale, attività produttive).

Rias

All’inizio del mese di aprile Rias (Rete Italiana Ambiente e Salute) pubblicava il documento Inquinamento atmosferico e epidemia COVID-19: la posizione della Rete Italiana Ambiente e Salute in cui veniva evidenziata l’importanza di porre l’attenzione sul tema.

San Raffaele

Uno studio del San Raffaele, appena pubblicato sul Journal of Infection, indaga il fenomeno in Italia e propone per la prima volta un meccanismo biologico in grado di spiegare il ruolo dell’inquinamento atmosferico. Nelle aree in cui si è diffusa l’epidemia di SARS-CoV-2 le concentrazioni di inquinanti atmosferici superano ampiamente i limiti massimi. L’esposizione cronica agli inquinanti atmosferici è stata associata alla sovraespressione polmonare ACE-2 che è nota per essere il recettore principale per SARS-CoV-2. Lo scopo dello studio è stato analizzare la relazione tra la concentrazione di inquinanti atmosferici (PM 2.5 e NO2) e l’epidemia di COVID-19, in termini di trasmissione, numero di pazienti, gravità della presentazione e numero di decessi. I casi COVID-19, i ricoveri in terapia intensiva e il tasso di mortalità erano correlati alla gravità dell’inquinamento atmosferico nelle regioni italiane. Il numero più alto di casi COVID-19 è stato registrato nelle regioni più inquinate con pazienti che presentavano forme più gravi della malattia che richiedevano l’ammissione in terapia intensiva. In queste regioni, la mortalità era due volte superiore rispetto alle altre regioni.

Fonte: Agenzia regionale di sanità Toscana, Network bibliotecario sanità Toscana


NOTE

[1] Broncopneumopatia cronica ostruttiva

[2] L’acronimo PM deriva dal termine inglese “Particulate Matter” (materiale particolato) e viene utilizzato per indicare le polveri sottili (o pulviscolo), quell’insieme di particelle microscopiche, solide e liquide, di diversa natura e  composizione chimica, che si trovano in sospensione nell’aria che respiriamo.

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