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La semplificazione legislativa in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

semplificazione legislativa

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Scrivevo ne “La fabbrica e l’accademia” (Palinsesto 2012):

le norme più sono importanti, più debbono essere facilmente comprensibili, più vogliono essere efficaci più debbono essere facilmente gestibili,

ovvero non devono permettere interpretazioni soggettive. Vorremmo che questa considerazione fosse finalmente recepita dal legislatore. L’esperienza suggerisce che in molte aziende (sopratutto le PMI),  il rispetto delle norme antinfortunistiche e di prevenzione vengono vissute come un’angheria che costringe ad una mole esagerata di registrazioni che debbono essere raccolte, archiviate, aggiornate e rese disponibili ad eventuali ispezioni. Tutto questo si trasforma spesso in una raccolta di documentazione che prescinde dalla efficacia delle misure adottate e dalla stessa conoscenza di ciò che si raccoglie; l’obiettivo è poter dimostrare all’eventuale ispettore di aver adempiuto a tutte le prescrizioni di norme che non si conoscono, non si riescono a capire e padroneggiare, norme che risulta più semplice e meno costoso affidare al controllo di una consulenza esterna piuttosto che gestire internamente all’organizzazione.

Le linee guida che dovrebbero facilitare la comprensione e l’applicazione di una legge, risultano a volte contraddittorie, interpretabili e in alcuni casi più oscure e complesse del testo legislativo; con l’aggravante di continue modifiche e rimaneggiamenti che complicano, invece di rendere più semplice, la comprensione delle norme e chiari i comportamenti da seguire, per i datori di lavoro, i lavoratori e i loro rappresentanti.

Non v’è dubbio che la storia sindacale, nel nostro paese, abbia influenzato la normativa. Nel 1985, con un decennio d’anticipo sul D.Lgs. 626/1994, Renzo Raimondi poteva scrivere

è forse anche utile ricordare che in Italia, a differenza di altri paesi industriali, i miglioramenti nelle condizioni di lavoro si sono determinati non tanto per  l’intervento legislativo e degli organi di controllo pubblico quanto piuttosto come risultato dell’intensa dinamica contrattuale che ha interessato l’intero tessuto industriale. Alcune linee guida, molto diverse da quelle del passato e da quelle di altri paesi come, ad esempio, quelle del rifiuto della monetizzazione della salute, della non delega, del ruolo centrale del gruppo omogeneo dei lavoratori nell’analisi e validazione dell’ambiente, hanno diretto l’azione sindacale in materia durante tutti gli anni ‘70. [1]

Negli anni ’80 l’attenzione all’ambiente e all’organizzazione del lavoro lascerà spazio a nuovi problemi, quali la crisi dell’unità sindacale, la ristrutturazione e l’automazione industriale con i suoi problemi occupazionali. Dovranno arrivare, a partire dagli anni ’90, le nuove norme legislative a porre nuovamente all’ordine del giorno le tematiche della sicurezza sul lavoro.
Va riconosciuto che la normativa europea, da cui promana l’attuale legislazione italiana, si è per un verso contraddistinta per un approccio “partecipativo”, mentre per altro verso ha tendenzialmente “messo nell’angolo” la contrattazione collettiva come potenziale fonte di standard minimi di tutela, lasciandole di fatto un ruolo ben più marginale di previsione di regole (e pratiche) “virtuose”, ma che vengono per così dire in seconda linea rispetto all’adeguamento richiesto agli standard obbligatori di tutela. [2]

Concetto questo ben esposto in una intervista che Diego Alhaique ha realizzato con Giovanni Berlinguer, uno dei protagonisti dal punto di vista politico e scientifico di quella stagione di lotte per conquistare il diritto alla salute e sicurezza dei lavoratori.  Negli anni Sessanta e Settanta l’Italia è stato il paese che ha avuto la stagione più ricca di lotte sindacali e di sostegno popolare, ma anche di mobilitazione dei sindacati, per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori, con la parola d’ordine: la salute non si vende.

C’è stata negli anni Ottanta la stagione dei regolamenti, che ha sostituito quella dei movimenti, delle lotte e delle conquiste. Ad esempio, il D.Lgs. 626/1994 e altri strumenti dell’UE riguardanti singole lavorazioni, rischi specifici ecc., hanno introdotto giustamente un sistema di regole per le aziende ma forse hanno fatto perdere l’anima alla lotta per la prevenzione. Per le aziende il decreto ha significato più un modo di porsi in regola, al riparo da sanzioni, anche con molti vantaggi, che non il seguire e il prevenire la condizione reale della produzione e lo stato di salute e di sicurezza delle singole persone. Queste leggi, cioè, sono valse più a prevenire i guai aziendali che non le malattie, e forse bisogna ritornare su questo strumento per renderlo più partecipativo. [3]

Proprio lo smantellamento dei Consigli di fabbrica e la rottura dell’unità sindacale sono state tra le cause che hanno fatto smarrire l’anima delle lotte per la prevenzione. Berlinguer suggerisce che occorrerà rimetter mano alla legislazione per restituirle quell’anima.

Il senatore Maurizio Sacconi e la senatrice Fucksia, nella scorsa legislatura, sembrerebbe abbiano raccolto il suggerimento di Giovanni Berlinguer, con la presentazione del Disegno Di Legge (DDL) che secondo le intenzioni dichiarate nel loro art.1 si porrebbe l’obiettivo di promuovere il miglioramento sostanziale della salute e della sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, riducendo al contempo gli adempimenti formali delle imprese. Obiettivo largamente rappresentativo del dibattito di questi anni.

Per raggiungere tale risultato con l’approvazione del DDL si vorrebbe abrogare il Titolo I del D.Lgs. 81/2008, mentre i successivi titoli verrebbero sostituiti entro 6 mesi da un decreto legislativo. Il DDL viene presentato con una analisi preliminare che si richiama ad alcuni elementi problematici che certamente esistono, che si sono stratificati accordo dopo accordo e che si vanno ad aggiungere, per complicarla, alla normativa. Negare che ci siano elementi di burocratizzazione eccessiva inseriti per consentire la sopravvivenza di una ridondante sovrastruttura di rappresentanza delle parti sociali ed esperti, che deve essere riveduta, non aiuterebbe a capire che la soluzione non può essere quella proposta, di sostanziale smantellamento della legislazione attuale.

Nella premessa al DDL si elencano i motivi sociologici che renderebbero non più procrastinabile un intervento sulla legislazione. Si afferma che:

  • Siamo di fronte al passaggio da modelli organizzativi verticali, nei quali il lavoratore esegue pressoché meccanicamente ordini gerarchicamente impartiti, a modelli orizzontali ove il lavoro si svolge per cicli, fasi, obiettivi, risultati.
  • Occorre coniugare condizioni di lavoro più sicure e regole d’impresa più funzionali alla competizione globale, ove molti concorrenti operano nella massima sregolatezza. Ma si afferma anche che la normativa di salute e sicurezza vigente in Italia – in larga parte contenuta nel D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico), è assolutamente coerente con le pertinenti direttive comunitarie e individua elevati livelli di tutela per ogni lavoratore, pubblico e privato. Tuttavia, essa si caratterizza per la sua eccessiva complessità, legislativa e di attuazione. Motivo che sembrerebbe far propendere per una difesa dell’attuale legislazione che avrebbe bisogno solo di una riduzione di complessità.

Personalmente sono d’accordo con molte delle singole affermazioni che vengono fatte nella premessa, seppure occorre andare oltre la superficie di un’analisi che appare molto semplicistica.

Non si può non riconoscere che i modelli organizzativi si stiano evolvendo verso forme che solo pochi avevano previsto negli anni in cui si è formata l’attuale legislazione, seppure nella società moderna non esiste un unico modello idealtipico che può descrivere il mercato del lavoro, il quale assume forme diversissime che convivono e si confrontano: da modelli organizzativi che pensavamo scomparsi che rischiano di somigliare allo sfruttamento della schiavitù (alcuni settori agricoli che utilizzano braccianti stranieri, e non solo, forniti dal caporalato) fino alle moderne forme di lavoro agile; alla crescita dell’utilizzo di professionisti e lavoratori autonomi, che si sostituiscono e si affiancano al tradizionale lavoro subordinato; alle vecchie forme organizzative verticali sulle linee di montaggio si  vanno sostituendo nuovi paradigmi organizzativi che richiedono al lavoratore un impegno cognitivo e di partecipazione. La massima sregolatezza nei comportamenti la troviamo anche tra molti soggetti nazionali che finiscono per affermarsi nella competizione grazie al non rispetto delle norme e dei contratti.

Nello spazio economico coesistono modelli organizzativi molto diversi tra loro: rappresentare il dibattito come una competizione tra i sostenitori di un modello organizzativo arcaico e piramidale e i sostenitori dei moderni modelli orizzontali, gli uni difensori di una vecchia legislazione e gli altri di un’esigenza di rinnovamento non avrebbe senso e sarebbe fuorviante.

In nessun caso si può giustificare l’abolizione del D.Lgs. 81/2008, che con il Titolo I rappresenta una filosofia di intervento nel sistema salute e sicurezza, una vera e propria metodologia valida per qualsiasi tipologia di organizzazione. Proprio questa coesistenza di modelli diversissimi ci suggerisce di tener fermi alcuni principi legislativi che rappresentano una premessa al Testo Unico:

  • L’art, 2087 del nostro codice civile, il Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 262, che recita “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
  • La nostra costituzione repubblicana ha rafforzato questo principio con l’art. 41. L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
  • La L. 300/1970 (Statuto dei diritti dei lavoratori), interviene con una innovazione fondamentale, all’art. 9 dispone che i lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.

Proprio quanto affermato nella premessa del DDL non può suggerire quel salto illogico di smantellamento sostanziale della normativa attuale, ma eventualmente richiede un impegno per una sua effettiva semplificazione, sburocratizzazione e smantellamento della sovrastruttura cresciuta all’ombra della legittima rappresentanza degli interessi.

I proponenti il DDL dichiarano, con il loro art. 13, la “centralità” della consultazione e partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, con riferimento alla gestione di tutte le questioni che riguardano la salute e sicurezza durante il lavoro. Credo che per restituire un’anima partecipativa alla legislazione occorra ridimensionare la figura del tecnico che in questi anni ha assunto un ruolo preponderante. Gli esperti che devono adeguare le aziende alla normativa hanno finito per emarginare i lavoratori che hanno delegato a loro, al legislatore, alla magistratura, la ricerca di soluzione ai problemi presenti nel luogo di lavoro: un ruolo da ridimensionare a favore di una maggiore partecipazione dei lavoratori.

La soluzione proposta va esattamente nella direzione contraria: secondo i proponenti occorre fare in modo che ai soggetti con riconosciute competenze, quali risultanti dallo svolgimento della professione nell’ambito di ordini o comunque in materia di salute e sicurezza (ad esempio il medico del lavoro o il responsabile del servizio di prevenzione e protezione), venga consentito di aiutare le aziende nella gestione della complessa normativa prevenzionistica, anche per mezzo della “certificazione” della adozione delle misure di prevenzione e gestione del rischio, alla quale venga attribuita – fermo restando la facoltà del Giudice di verificare la veridicità della relativa dichiarazione – valenza esimente rispetto alle responsabilità antinfortunistiche. Questo scarico di responsabilità (tutta da verificare, in giudizio, in caso di infortunio o malattia professionale) oltre ad avere segno contrario, ad avviso di chi scrive, rispetto i citati artt. 2087 del C.C., 41 della Costituzione e 9 della L. 300/1970, finisce per dare maggiore rilievo alle figure degli “esperti” ed emarginare ancora di più i lavoratori e i loro rappresentanti.  Mentre non ritengo vera l’affermazione che l’attuale normativa imporrebbe in modo indistinto a tutti i datori di lavoro l’adozione – tendenzialmente assistita da sanzione penale – delle stesse misure di tutela, progettate avuto riguardo al modello di una impresa manifatturiera, strutturata e organizzata in modo tradizionalmente gerarchico.

La sanzione penale può essere in alcuni casi specifici inappropriata ed eventualmente rivista, ma in realtà l’applicazione correttamente intesa della metodologia individuata nel testo unico produce risultati assai diversi da impresa ad impresa a seconda delle loro caratteristiche, complessità e settore di intervento, certo prevede che:

  • tutti i datori di lavoro effettuino una valutazione dei rischi (e possibilmente conoscano il risultato della valutazione), che sarà però diversa da azienda ad azienda, per complessità e per l’individuazione di rischi diversi, a meno che il consulente non utilizzi la tecnica del copia e incolla;
  • tutti i lavoratori vengano informati e formati, da un formatore qualificato, rispetto ai rischi presenti nel proprio lavoro, e la formazione dovrebbe essere diversa in funzione dei risultati della valutazione dei rischi, a meno che non venga affidata a formatori che abbiano imparato un’unica lezioncina da ripetere a memoria in tutte le occasioni, senza il coinvolgimento dei lavoratori;
  • per alcuni lavori, su proposta del RSPP, occorrerà adottare mezzi di protezione collettivi ed individuali, diversi da caso a caso, che in altre situazioni non occorreranno;
  • in base ai risultati della valutazione dei rischi il medico competente stabilirà protocolli di sorveglianza sanitaria diversi per ciascun gruppo omogeneo di lavoro e per ciascuna azienda;
  • tutti gli anni nelle aziende con oltre 15 dipendenti il DL organizzerà riunioni periodiche di verifica del lavoro svolto e pianificazione dei miglioramenti attesi, con la partecipazione degli RLS oltre il MC e il RSPP.

Ogni azienda, se effettuerà con efficacia le norme, avrà un risultato diverso da tutte le altre. Il problema è che per un eccesso di burocratizzazione ed il proliferare di regole che vorrebbero dettare fin nei minimi particolari ogni azione da compiere si rischia di finire ostaggi di consulenti produttori di carte conformi.

Se è vero che l’Unione Europea ha ripetutamente sollecitato gli Stati membri a procedere a una semplificazione degli adempimenti connessi alla disciplina della salute e sicurezza sul lavoro soprattutto quando burocratici e documentali, tali da non incidere sui livelli di tutela. E se l’idea dei proponenti è favorire una gestione della salute e sicurezza sul lavoro da parte delle imprese che sia, più di quanto oggi accade, diretta a perseguire in modo sostanziale il rispetto dei livelli di tutela limitando l’utilizzo di risorse aziendali dirette alla realizzazione di adempimenti meramente formali, come ad esempio le notifiche o le comunicazioni. Il DDL dovrebbe individuare le semplificazioni promesse, non limitarsi allo smantellamento sostanziale delle norme.

Abbiamo fin qui parlato di smantellamento della normativa, laddove altri avrebbero forse usato il termine di semplificazione, la differenza tra i due termini appare chiara già dal semplice confronto tra l’indice del titolo I del D.Lgs. 81/2008 e l’indice del DDL a firma Sacconi-Fucksia.

Il titolo I del D.Lgs. 81/2008 ha il suo fulcro nel capo III Gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro che a sua volta è diviso in 8 sezioni:

  • La sezione I è dedicata alle misure generali di tutela dove all’art. 15 viene descritta una vera e propria strategia di intervento e nei successivi 12 articoli si descrivono gli obblighi dei diversi attori che si devono occupare di sicurezza sul luogo di lavoro (datore di lavoro e dirigenti, preposto, lavoratori, progettisti, fabbricanti e fornitori, installatori, medico competente, contratti d’appalto, d’opera o di somministrazione). Nel DDL tutta la sezione viene “semplificata” in 5 articoli che neanche prendono in considerazione alcuni importanti attori del processo di costruzione e mantenimento della salute e sicurezza, come progettisti, fabbricanti, fornitori e installatori. Non viene previsto che possano esserci degli obblighi non delegabili per il Datore di Lavoro, anzi sembra a chi scrive che sia prevista una attenuazione dei propri obblighi ricorrendo alla certificazione di consulenti a ciò abilitati.
  • Le sezioni II dedicata alla valutazione dei rischi, azione fondamentale intorno la quale costruire la propria strategia di intervento, non ha articoli specifici ad essa dedicati.
  • La sezione terza dedicata al Servizio di Prevenzione e Protezione (5 articoli) ha come corrispettivo il solo articolo 9 del DDL di otto righe. Così come la sezione V dedicata alla sorveglianza sanitaria (5 articoli nel D.Lgs. 81/2008) il solo articolo 16 nel DDL; e la sezione VI (gestione delle emergenze) di quattro articoli sostituiti dall’art.10 (primo soccorso, antincendio, evacuazione).
  • L’impressione di una improvvisazione colpevole si ha anche andando a leggere gli articoli dedicati alle sanzioni previste per il mancato adempimento delle norme: un solo articolo di otto commi per tutti gli attori del processo di salute e sicurezza e tutti gli obblighi a loro connessi. La lettura degli articoli citati definisce la differenza tra semplificazione, che intendo come l’eventuale sfoltimento di articoli ridondanti quali se ne trovano ad esempio (a mio avviso) nel capo II – Sistema istituzionale, e smantellamento, ovvero l’omissione o l’indeterminazione di disposizioni che sono fondamentali a definire il ruolo di ciascuno dei soggetti interessati alla realizzazione e al mantenimento di un ambiente di lavoro sano e sicuro. Questo DDL, per dirla con le parole di Giovanni Berlinguer sembra più adatto a prevenire i guai aziendali che non perseguire il miglioramento sostanziale della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Dopo aver criticato uno degli indirizzi presenti nel dibattito, provo ad indicare in modo sintetico alcuni elementi che a mio avviso andrebbero approfonditi:

  1. La legislazione per un certo numero di anni non dovrebbe subire modifiche per dar modo di essere assimilata e compresa.
  2. L’Inail anche con la collaborazione dei VVFF, dovrebbero fornire una sorta di consulenza amichevole in sede di primo controllo per correggere tutti gli eventuali errori od omissioni e consigliare eventuali interventi migliorativi.
  3. Avere un DVR non significa conoscerlo, spesso i DL non leggono i DVR commissionati a consulenti esterni. Ai corsi lavoratori sui rischi specifici (che dovrebbero essere centrati sulla conoscenza approfondita del DVR adottato) dovrebbero partecipare obbligatoriamente oltre i lavoratori, i preposti, i dirigenti e i DL delle PMI per formarli alla conoscenza del DVR adottato.
  4. Gli aggiornamenti per i lavoratori dovrebbero avere una frequenza maggiore ad esempio triennale (di durata di 4 ore), da realizzare in occasione degli aggiornamenti del DVR (questa volta a cura del DL). Ai corsi di aggiornamento lavoratori nelle PMI dovrebbero sempre partecipare preposti, dirigenti e DL.
  5. Può chiudere il cerchio uno sforzo organizzativo delle organizzazioni sindacali per organizzare gli RLST che possono avere un ruolo molto importante per indirizzare le PMI che vorrebbero ma non sanno e per costringere eventuali DL che sanno cosa occorre fare ma non vogliono.

NOTE

[1] Renzo Raimondi in D.De Masi, F.O. Buratto, A. Cascioli, G. De Santis, R.Raimondi, F. Vacirca, A.M. Ventrella, Il lavoratore post-industriale, Franco Angeli 1985.
[2] Gaetano Natullo, “Nuovi” contenuti della contrattazione collettiva, organizzazione del lavoro e tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, I WORKING PAPERS DI OLYMPUS – 5/2012.
[3] Diego Alhaique, Il riscatto del lavoro, su “Il mese” inserto di Rassegna sindacale luglio 2006.

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