Cassazione Penale, Sez. 4, udienza 10 luglio 2015, n. 38346

Impresa familiare e qualifica di datore di lavoro. Mancanza di DPI e POS.


 

Fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Trieste ha riformato la pronuncia emessa dal Tribunale di Udine nei confronti di M.A., che era stato ritenuto responsabile dell’infortunio sul lavoro occorso a M.C.. Questi, mentre si trovava sulla copertura di un capannone intento a riparare le lastre che la componevano, a causa del cedimento di una lastra e della mancanza di dispositivi di sicurezza precipitava al suolo riportando un politrauma. All’imputato veniva ascritto di non aver dotato l’infortunato, componente della comune impresa familiare, di idonei dispositivi di sicurezza individuali (art. 21 d.lgs. n. 81/2008) e di aver omesso di predisporre il piano operativo di sicurezza [art. 96, lett. g) d.lgs. n. 81/2008], ancorché datore di lavoro.
La Corte di Appello ha mandato assolto l’imputato, escludendo che questi potesse essere qualificato datore di lavoro dell’infortunato, perché i collaboratori familiari dell’imprenditore non assumono veste di lavoratori subordinati e perché nella concreta fattispecie non sussisteva un rapporto di subordinazione tra M.A. e M.C., non potendo lo stesso desumersi dalla circostanza che al primo fosse stata attribuita, in sede di costituzione dell’impresa, una quota di utili pari al 51% né emergendo tale qualità da altre evidenze processuali.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Trieste deducendo violazione di legge in relazione all’art. 96 d.lgs. n. 81/2008.
Rileva il ricorrente che nell’ambito dell’impresa familiare di cui all’art. 230bis c.c. i componenti della stessa non assumono la veste di dipendenti ed é pertanto inutile soffermarsi su eventuali indicatori di un vincolo di subordinazione perché questo é escluso a priori dalla caratteristica disciplina dell’istituto; il quale, secondo la ricostruzione concorde della dottrina e della giurisprudenza, propone un titolare con poteri di organizzazione e direzione, munito di poteri di rappresentanza esterna, ed i familiari coadiutori, tutti posti tra loro in un rapporto paritario e solidaristico.
Ma la questione davvero rilevante, continua l’esponente, é se la normativa di prevenzione degli infortuni sul lavoro deve trovare applicazione anche in favore dei familiari collaboratori dell’impresa. Il quesito deve trovare risposta negativa in forza dell’art. 21 d.lgs. n. 81/2008, quando l’impresa ed i suoi componenti prestano attività all’interno della sede abituale, che talora costituisce anche il centro della comunione di vita di tutti o di alcuni membri del gruppo familiare. Per contro, l’art. 96 riserva una diversa disciplina per il caso in cui l’impresa familiare sia impegnata fuori dalla propria sede, presso cantieri nei quali si effettuano lavori edili. Tale norma, infatti, attribuisce la qualifica soggettiva di datore di lavoro anche al titolare dell’impresa familiare, con la conseguenza che i beneficiari della tutela apprestata dal POS sono non solo eventuali lavoratori subordinati dell’impresa familiare ma anche i componenti della medesima. Il POS, quindi, conclude l’esponente operando il coordinamento tra l’art. 96 e l’art. 21, ha la funzione di porre i collaboratori familiari nelle condizioni di ottemperare all’obbligo di munirsi di idonee attrezzature da lavoro e dei dispositivi di protezione appropriati.
Nel caso di specie non vi è alcun dubbio che l’imputato fosse il titolare dell’impresa familiare e pertanto egli era tenuto a redigere il POS; e l’inosservanza di tale obbligo si é posta quale antecedente causale dell’infortunio occorso a M.C..
3. Con telefax del 2.7.2015 é stato inviato a quest’ufficio atto denominato ‘Memoria difensiva’, sottoscritto dal difensore di fiducia dell’imputato, avv. Omissis, con il quale si sostiene che l’impresa familiare é caratterizzata dall’assenza di rapporto di subordinazione tra i componenti e di una posizione di garanzia di uno di essi nei confronti degli altri, richiamando a sostegno la previsione dell’art. 21d.lgs. n. 81/2008. Non sarebbe possibile individuare in essa un datore di lavoro, con l’effetto di non potersi fare applicazione della previsione dell’art. 96 d.lgs. n. 81/2008.

Diritto

4. Il ricorso é fondato.
4.1. In considerazione del limitato numero di arresti del giudice di legittimità concernenti i temi proposti dalla vicenda in esame appare opportuno svolgere in primo luogo una breve ricognizione del quadro normativo vigente al tempo della commissione del fatto per cui é processo (30.1.2009).
L’impresa familiare é presa in considerazione dal d.lgs., n. 81/2008 in pochi articoli.
L’art. 3, co. 12 dispone che nei confronti dei componenti dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis c.c. si applicano le disposizioni di cui all’articolo 21. Tal ultima norma prevede che i componenti dell’impresa familiare devono utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al titolo III; munirsi di dispositivi di protezione individuale ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al titolo III; munirsi di apposita tessera di riconoscimento qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto. Gli stessi, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno facoltà di beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali; partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.
Il corredo sanzionatorio per le eventuali violazioni é recato dall’art. 60, che punisce i componenti dell’impresa familiare con la pena criminale l’inosservanza degli obblighi concernenti le attrezzature ed i dispositivi individuali di protezione e con la sanzione amministrativa l’obbligo di dotarsi di tessera di riconoscimento.
Un riferimento, invero non di immediata comprensione, all’impresa familiare l’opera poi l’art. 96, laddove pone una serie di obblighi in capo ai datori di lavoro delle imprese affidatarie e delle imprese esecutrici, tra cui quello di redigere il POS di cui all’art. 89, co. 1 lett. b), anche nel caso in cui nel cantiere operi una unica impresa, anche familiare o con meno di dieci addetti, salvo che si tratti di mere forniture di materiali o attrezzature. Nel qual caso trovano comunque applicazione le disposizioni di cui all’articolo 26.
Di nessun interesse ai fini che qui occupano é poi la previsione dell’art. 4, co. 1, il quale stabilisce che ai fini della determinazione del numero di lavoratori dal quale il presente decreto legislativo fa discendere particolari obblighi non sono computati i collaboratori familiari di cui all’articolo 230-bis c.c.
4.2. La trama normativa appena evocata costituisce una significativa novità rispetto al passato, che secondo l’opinione dominante – ed infatti accompagnata da dubbi – vedeva la tutela antinfortunistica non estesa ai collaboratori dell’impresa familiare.
Parallelamente alla riconosciuta peculiarietà dell’impresa familiare e in ragione di essa, nel settore della sicurezza del lavoro si é registrato per lungo tempo il ritrarsi del legislatore, che ha escluso i componenti dell’impresa familiare da ogni coinvolgimento nella complessa disciplina. Tanto che la Corte costituzionale, che pure aveva censurato la mancata equiparazione tra lavoratore subordinato e lavoratore autonomo sotto il profilo della tutela della salute, affermando che a uguale pericolo per la salute deve corrispondere eguale tutela (sentenza n. 21/1964) con la sentenza n. 212/1993 ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità sollevata a riguardo dell’art. 3, co. 2 d.p.r. 547/55, posta in relazione all’art. 3 Cost., “nella parte in cui non comprende anche ì partecipanti all’impresa familiare tra i soggetti – equiparati ai lavoratori subordinati — con riguardo ai quali va osservata la normativa di prevenzione degli infortuni sul lavoro”.
La Corte ha ritenuto, infatti, che la censura tendesse a provocare un intervento additivo, con la creazione di una nuova incriminazione; peraltro non applicabile al caso di specie proprio perché successiva al fatto. Nell’occasione i giudici della Consulta non hanno mancato di rimarcare come si tratti di materia che deve restare riservata in via esclusiva al legislatore “in rapporto alla peculiarità dell’impresa familiare cui è stata estesa l’assicurazione contro gli infortuni (cosi appagando una diffusa esigenza di tutela del lavoro: cfr. sentenza n. 476 del 1987), ma che resta comunque permeata di legami affettivi, onde appare quanto meno problematico l’innesto di obblighi e doveri sanzionati attraverso ipotesi di reato procedibili d’ufficio”.
All’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 626/94, in senso analogo si erano espresse anche alcune circolari del Ministero del lavoro (154/96, 28/97 e 30/98), che valorizzando l’assenza di un vincolo di subordinazione del collaboratore familiare lo reputavano escluso dalla tutela apprestata dal d.lgs. n. 626/94, a meno che, in concreto, quel vincolo non fosse accertato. Ciò sulla scorta della definizione di lavoratore valevole ai fini dell’applicazione della disciplina recata dal d.lgs. n. 626/94, imperniata proprio sull’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato [art. 2, co. 1 lett. a)].
4.3. In verità, tale interpretazione non corrispondeva a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, ad avviso della quale il d.lgs. n. 626/94 tutela(va) la sicurezza di tutte le forme di lavoro anche quando non sussista un formale rapporto di lavoro e quindi anche con riguardo a chi collabora saltuariamente in un’impresa familiare (Sez. 4, n. 17581 del 01/04/2010 – dep. 07/05/2010, Montrasio, Rv. 247093). Nella motivazione dell’indicata pronuncia si affermava che l’art. 2 del d.lgs. n. 626/1994, nel testo novellato dal D.Lgs. n. 242/1996, innovando rispetto alla formulazione originaria della norma, pone l’accento, ai fini dell’individuazione della figura del datore di lavoro, non tanto sulla titolarità del rapporto di lavoro, quanto sulla responsabilità dell’impresa, sull’esistenza di poteri decisionali e che sulla scorta della loro effettiva ricorrenza é possibile ritenere l’esistenza del rapporto di lavoro e dei connessi obblighi in materia antinfortunistica, pur in presenza del vincolo familiare.
Ed in effetti, sembra del tutto condivisibile distinguere l’ipotesi in cui un prestatore d’opera sia comunque sottoposto a poteri organizzativi e gestionali di altro soggetto, che di quello sia un familiare, dall’ipotesi in cui più familiari prestino la propria opera in posizione paritaria, sia pure con articolazione e ripartizione dei compiti. Nel primo caso l’essenza dell’impresa familiare sembra smarrirsi. La giurisprudenza civile, che in maggior misura ha avuto modo di confrontarsi con la problematica, ha identificato “l’istituto dell’impresa familiare come autonomo, di carattere speciale (ma non eccezionale) e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile” (Sez. U, Sentenza n. 23676 del 06/11/2014, Rv. 633164), riconoscibile laddove “concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento, da parte del partecipante, di una attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno), sia dell’accrescimento della produttività della impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi)” (Sez. L, Sentenza n. 27839 del 16/12/2005, Rv. 587163).
Se ne può ricavare che l’impresa familiare é caratterizzata dallo svolgimento da parte del familiare di attività lavorativa continuativa e della sua partecipazione agli utili in misura proporzionale al lavoro prestato.
4.4. Di qui il carattere innovativo delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 81/2008, come riconosciuto unanimemente dalla dottrina. Per lo più dell’avviso che l’art. 21 definisca l’ambito delle misure che si applicano nei confronti dei componenti dell’impresa familiare. Misure che inducono ad affermare che ai componenti dell’impresa familiare é riconosciuta una “tutela limitata o minimale”. Opzione legislativa investita dalla critica, per la preoccupazione che questa sia possibile albergo di forme di sfruttamento e della maggiore rischiosità connessa a prestazioni dal carattere variabile e flessibile. Altri rimarcano l’assimibilità dei componenti dell’impresa familiare ai soci, che però sono parificati ai lavoratori subordinati.
Minoritaria appare la tesi che, argomentando dall’art. 3, co. 12, conclude che disciplina legale estende in modo ‘integrale’ ai componenti dell’impresa familiare la tutela garantita ai lavoratori subordinati.
4.5. Ad avviso di questo Collegio le norme che il d.lgs. n. 81/2008 dedicano all’impresa familiare rendono evidente che essa è divenuta destinataria di talune previsioni, ma anche che l’ambito delle norme prevenzionistiche ad essa applicabili non corrisponde a quello degli altri lavoratori, risultando limitato dall’art. 21, al quale fa riferimento l’art. 3, co. 12.
Non vi è quindi una tutela ad ampio spettro ma ve ne è una specifica e peculiare nei contenuti, emergente dalla modulazione di un ridotto numero di doveri (utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al titolo III; munirsi di dispositivi di protezione individuale ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al titolo III; munirsi di apposita tessera di riconoscimento qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto) e di facoltà (in tema di sorveglianza sanitaria e di formazione).
4.6. In considerazione dei temi proposti dal ricorso in esame, un’attenzione particolare merita quanto disposto dall’art. 96, nella parte sopra evidenziata.
Tale disposizione sembrerebbe prestarsi ad esser letta anche come assumente la presenza dell’impresa familiare soltanto sotto il limitato profilo della individuazione delle condizioni dalle quali scaturisce l’obbligo di redazione del POS da parte dell’impresa affidatala e di quelle esecutrici. E tuttavia, proprio perché tale obbligo si impone anche quando l’impresa interessata ai lavori sia unica, risulta che esso si indirizza anche all’impresa familiare. Né sembra sostenibile che tale impresa sia tenuta alla redazione del POS solo se si avvale di lavoratori subordinati, quindi di soggetti non componenti dell’impresa familiare; si tratta di una interpretazione che non trova eco nella norma.
Quanto al soggetto tenuto ad adempiere tale dovere, sarebbe errato ricercarlo attraverso gli schemi ricostruttivi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza civile, le quali riconoscono le qualifiche di ‘titolare’ e di ‘collaboratori’ dell’impresa familiare. In materia di obblighi prevenzionistici, il debitore di sicurezza non può che essere identificato alla luce delle definizioni che lo stesso d.lgs. n. 81/2008 offre. Pertanto, poiché a redigere il POS sono tenuti, in forza dell’art. 96, i datori di lavoro delle imprese affidatarie e delle imprese esecutrici, é a tale nozione che occorre guardare; ovvero all’art. 2 lett. b) d.lgs. b. 81/2008, per il quale datore di lavoro é il datore é “il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” (non potendo per definizione venire in considerazione nell’ambito di cui ci si occupa il ‘titolare del rapporto di lavoro’). Pertanto, se è vero che il titolare dell’impresa familiare non è per ciò stesso datore di lavoro, ciò non significa che una simile figura non sia rintracciabile tra i componenti dell’impresa familiare (titolare o meno); i fattori costitutivi (poteri decisionali e di spesa) saranno la guida per l’accertamento (e pertanto va decisamente respinta la tesi, avanzata in dottrina, secondo la quale tenuta a redigere il POS sarebbe sempre l’impresa familiare ‘nel suo insieme’).
Vale ribadire che la tutela prevenzionistica non presuppone l’indefettibile presenza di un rapporto di lavoro subordinato (questa Corte ha ritenuto beneficiario della tutela anche colui che svolge il lavoro per mero favore: Cass. 4, 4 marzo 1982, n. 2232; Cass. 4, 7 marzo 1990 n. 3273; senza dimenticare la copiosa giurisprudenza concernente i terzi estranei all’impresa: da ultimo cfr. Sez. 4, n. 43168 del 17/06/2014 – dep. 15/10/2014, Cinque, Rv. 260947); quel che rileva é la relazione di fatto che si instaura tra chi gestisce il rischio derivante dal lavoro e chi ad esso vi é esposto.
5. A questo punto si può finalmente giungere alle conclusioni.
La sentenza impugnata opera una errata applicazione delle disposizioni sin qui rammentate del d.lgs. n. 81/2008 perché valorizza un parametro del tutto inconferente rispetto alla questione della riconoscibilità o meno di una operatività dell’obbligo di redazione del POS in presenza di impresa familiare, ovvero l’esistenza di un vincolo di subordinazione del prestatore d’opera (che, ove ricorrente, si sovrappone, svuotandola di rilevanza, alla qualità di componente dell’impresa familiare). Operatività che, ancora errando, nega quando l’impresa familiare non abbia lavoratori subordinati.
Inoltre essa, che pure si interroga sulla qualifica di datore di lavoro dell’imputato rispetto all’infortunato, la esclude ancora una volta per l’incertezza in merito all’esistenza del vincolo di subordinazione, laddove doveva essere indagata la titolarità di poteri decisionali e di spesa.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di Appello di Trieste, perché accerti alla luce dei principi qui esposti se l’imputato aveva assunto il ruolo di datore di lavoro dell’infortunato.
Appare opportuno puntualizzare che tale indagine non esaurisce i compiti del giudice del rinvio, il quale – nel caso l’accertamento avesse esito positivo – dovrà ancora verificare se la redazione del POS avrebbe avuto efficienza impeditiva, dovendosi coordinare quanto é stabilito in tema di POS e l’obbligo che l’art. 21 pone in capo agli stessi componenti familiari di “munirsi” di DPI. Infatti, mentre in generale la valutazione dei rischi e la dotazione del lavoratore dei DPI compete al datore, nel ristretto ambito che ci occupa la valutazione del rischio é ancora del datore ma è ciascun componente familiare che é tenuto a dotarsi del DPI individuato come misura antinfortunistica nel POS. Tanto richiede al giudice un passaggio ulteriore nel percorso logico, perché deve potersi affermare che, una volta individuata la misura, il singolo componente si sarebbe munito del DPI. Affermazione che non può essere operata sulla scorta di una mera presunzione di consequenzialità.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame aialtra sezione della Corte di Appello di Trieste.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 10/7/2015.

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