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Uno spettro si aggira per l’Italia nell’epoca del Coronavirus: l’aggiornamento del Dvr

coronavirus e dvr

I primi giorni di marzo il Governo ha varato due Decreti, contenenti le nuove disposizioni relative all’epidemia da Covid-19. Si indicano alcune misure da adottare, anche sui posti di lavoro. Il primo Decreto si focalizza su due luoghi di lavoro, la scuola e l’università, che con il secondo Decreto sono stati chiusi o sospesi. Alle aziende si offre la possibilità di ricorrere al cosiddetto “lavoro agile”, anche senza specifici accordi tra le parti.

Significa che per il lavoro è sufficiente adottare quanto stabilito nei Decreti? Su questo tema è nata una disputa, ancora non risolta dai successivi interventi degli organi competenti. O meglio si è evidenziata, come per il tema della difesa della salute pubblica, la mancanza di una direzione centrale che gestisca in modo univoco per tutta la popolazione il tema salute.

Sono iniziate a fioccare le prese di posizione, in primo luogo da parte delle Regioni più interessate (Lombardia e Veneto), poi delle Asl delle stesse regioni (Asl dell’Insubria o di Bergamo) e non (Lazio, Toscana), mentre le Associazioni Datoriali, gli ordini professionali, le Organizzazioni sindacali, ognuno per conto proprio diffondevano indicazioni, consigli, istruzioni. Parzialmente dissonanti.
Negli ultimi giorni è stato diffuso anche un comunicato da parte di un’Associazione per la lotta alla Trombosi, che dichiara di aver recepito il suo contenuto da un anonimo ricercatore cinese che vive nelle zone originarie del virus, contenente diverse imprecisioni.

L’informazione è un elemento fondamentale per difendersi dal virus, e questa cacofonia di interpretazioni, suggerimenti, indicazioni, disorienta la popolazione e crea problemi ai DdL, ai RSPP, il Rls e ai lavoratori.

Di fronte alla domanda se intervenire e come, nel mondo della produzione, l’atteggiamento è stato più o meno lo stesso. Da subito si sono registrati due diversi atteggiamenti: alcuni, di fronte al nuovo rischio biologico, pensano che si debba aggiornare il Dvr; altri sostengono che basta limitarsi a seguire le indicazioni delle Autorità pubbliche, in particolare quanto prescritto dai Decreti governativi.

Nei giorni seguenti all’emanazione dei Decreti è apparso evidente che la loro mera applicazione non è semplice e che, in molte realtà, c’è bisogno di pensare a interventi supplementari per adattare le indicazioni generali alla concreta realtà lavorativa. Facciamo, per chiarezza, un esempio. La logica di fondo delle misure disposte è quella di limitare i contatti tra le persone al fine di restringere la probabilità del contagio. Uno dei punti del Decalogo emanato dal Ministero della Salute dice di evitare i locali sovraffollati e la vicinanza tra persone. Sono state diffuse anche distanze metriche da tenere. È chiaro che se nella vita privata la possibilità di isolarsi, di ridurre i contatti o non averli affatto è una scelta possibile, così non è per i lavoratori che operano in spazi condivisi, a volte ristretti, a contatto con il pubblico, spesso con le categorie maggiormente a rischio. Sono queste situazioni che rendono il rischio, che sta affrontando tutta la popolazione, accentuato dalle condizioni e dalle modalità di lavoro. Non tutte le imprese si trovano in questa situazione, ma neppure si tratta di rare situazioni limite.

Nell’immediato, la questione sul Dvr appare più formale che sostanziale. Trovandoci, si spera, di fronte a una emergenza temporanea, la cosa essenziale da fare è agire con efficacia. Emanando misure chiare e coerenti. Dove poi vadano scritte, in questa situazione, non sembra essere un fattore decisivo.

Qualcuno, però, tenta di approfittarne per riesumare interpretazioni superate. La più rilevante sostiene che si possa escludere il  Dvr dal trattamento dell’emergenza in corso per il fatto che questo documento è dedicato ai “rischi professionali”, restringendo il campo di questi alle sole mansioni e ai compiti legati alla produzione aziendale.

La valutazione dei rischi, secondo l’art. 28 del D.Lgs. 81/2008, prevede però l’analisi di “TUTTI I RISCHI”, non solo quelli inerenti la produzione (che sono ovviamente quelli più diffusi e rilevanti), ma di tutti quelli presenti dentro “l’organizzazione aziendale”. Quei rischi nei quali il lavoratore non incorrerebbe, o nei quali avrebbe meno probabilità d’incorrere, se non lavorasse.

Tra questi rischi ne esiste una famiglia denominata “rischi generici aggravati dal lavoro”. In sostanza chiunque può cadere da qualsiasi scala (rischio generico), ma un lavoratore che per svolgere la sua mansione sia costretto a salirle e scenderle diverse volte, magari pressato dall’urgenza di portare a termine il suo compito, ha una probabilità di cadere più alta di altri (il rischio è quindi aggravato dal contesto lavorativo). Questa famiglia di rischi è normalmente inserita nella valutazione dei rischi.

Un terremoto, la caduta di un fulmine, una epidemia virale, un atto terroristico, una rapina e tanti altri avvenimenti rientrano in questa definizione? Certamente sì, se il lavoro è tale da comportare l’aggravamento delle possibilità d’incontrare uno di questi eventi o di aumentarne il grado di danno rispetto alla popolazione genericamente intesa. L’elemento è sempre dato, da una parte dall’aumento della probabilità e del danno, dall’altra dalla “costrittività” dei lavoratori, che non hanno la stessa possibilità del resto della popolazione di sottrarsi ai rischi presenti “nell’ambito dell’organizzazione in cui prestano la propria attività” (art. 2 lett. q).

Qualche spiritoso, non mancano mai, può dire: “Ma allora anche il rischio che cada un meteorite va valutato dal DdL”.  Spiritoso, ma poco preparato. Il rischio, quello generico, per essere valutato e inserito nel Dvr, deve avere “l’aggravante” data dal contesto lavorativo. Il meteorite, che, com’è noto, ha già probabilità remote di arrivare sul pianeta Terra, può cadere su tutti, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo sia esso un deserto, speriamo, o addosso a una casa o una fabbrica. Non c’è nulla che nell’attività lavorativa possa rendere più probabile che cada in un punto piuttosto che in un altro. Inoltre, non esiste nulla di “tecnicamente possibile” per eliminare o ridurre il rischio. Non è così per i terremoti di cui, per esempio, esiste una mappa delle località a rischio, oltre a vari altri elementi che possono aiutare a prevedere e a ridurre il danno. Attraverso l’obbligo di costruzione antisismica, ad esempio, una particolare attenzione alle procedure di evacuazione, una diversa preparazione delle squadre di emergenza e primo soccorso rispetto al rischio specifico, una informazione e preparazione dei lavoratori (il Giappone è spesso citato come esempio). Stessa cosa vale se l’imprenditore colloca un lavoratore in locale completamente interrato in una zona a forte presenza di gas radon, o con temperature esterne stabilmente oltre i 30° (ma potrei dire vicino a una fonte inquinate, rumorosa). Il rischio che queste condizioni aggravino il rischio per la salute del lavoratore ci sono e vanno misurate, anche se non sono legate alla sua specifica professione e attività lavorativa.

D’altronde l’art.28 è di una chiarezza lampante. È evidente che se il legislatore avesse voluto ridurre la valutazione dei rischi ai soli rischi professionali l’avrebbe scritto esplicitamente e non avrebbe scritto “tutti i rischi” e basta. Dirò di più. L’Italia provò a restringere l’area dei rischi nel D.Lgs. 626/1994 all’art. 4. Il primo comma prevedeva:

Il datore di lavoro, in relazione alla natura dell’attività dell’azienda ovvero dell’unità produttiva, valuta, nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari.

Fino al 2008 il rischio stress, pur correlato al lavoro, non non veniva considerato un rischio professionale e per questo motivo non veniva valutato.

Nel 2001 l’Italia venne condannata, proprio su questo punto, dalla Corte di Giustizia europea, e dovette modificare l’articolo che così venne accolto nel D.Lgs. 81/2008. Ora, nel citato art. 28, l’elencazione dei punti quali le attrezzature ecc. viene preceduta da un ANCHE. Come dire: non solo. E poi si ribadisce che deve riguardare TUTTI i rischi riguardanti la salute e la sicurezza dei lavoratori, dizione ripetuta in più punti della normativa senza alcuna specifica, che viene invece aggiunta per quanto riguarda, per esempio, l’attività del servizio di prevenzione. Questa si occupa di una parte della valutazione, essendo un’altra demandata ad altre figure, quali il medico competente e se necessario altre figure esterne.

Torniamo all’oggi. Sarebbe logico inserire il rischio biologico causato dal Covid-19 nel complesso procedimento di valutazione-adozione di misure di programmazione-monitoraggio dell’efficacia, cioè in quel processo con cui si arriva alla stesura e alle modifiche successive del Documento di Valutazione dei Rischi. All’interno di quella “valutazione globale” prevista dalle norme. Considerando anche quanto scritto nel Titolo X del Testo Unico.

Lo si ritiene in un momento di emergenza ridondante? Si vogliono salvaguardare le piccole imprese dai rapaci consulenti che subito si sono presentati con pacchetti preconfezionati per modificare il Dvr a costi salati? Che lo si faccia a latere. È importante che quello del Dvr, e del suo aggiornamento, sia comunque considerato come un problema che riguarda la difesa della salute del lavoratore; che il DdL assuma le adeguate misure, e se come spesso accade, queste misure necessitino, per essere applicate, di ulteriori interventi organizzativi, ambientali, comportamentali, che si consultino gli altri protagonisti della prevenzione aziendale, in particolare il Medico Competente e il Rls. E soprattutto, che non ci si attardi dietro a fantasiose interpretazioni.

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