Spaccanavi: il lavoro più pericoloso al mondo. Uno sguardo al settore del riciclo delle grandi imbarcazioni nell’Asia meridionale.

Shipbreaker Platform Ong

foto di: Shipbreaker Platform (Ong)


Una nave di proprietà di una compagnia Sud-Coreana naviga lungo le coste del Bangladesh. Si tratta di una delle 94 navi che, secondo i dati di inizio marzo, sono state lasciate a deteriorarsi lungo le spiagge del Bangladesh. Si tratta di navi che si trovano alla fine della loro ciclo vitale: obsolete danneggiate o inservibili, che vengono trasportate e abbandonate sulle coste del’Asia meridionale. Ma la loro vita non finisce lì. Una volta arenate queste navi sono quindi smontate pezzo per pezzo e riutilizzate. Le loro parti sono vendute, separatamente, usate per costruire nuove apparecchiature. Il metallo fuso, le batterie recuperate, i loro computer smontati.

Un‘economia di riciclo che coinvolge circa 225.000 lavoratori nel mondo. Si tratta di un settore economico molto diffuso nel Sud-Est asiatico, specialmente in India, Pakistan e Bangladesh dove la maggior parte dei lavoratori sono individui che vivono sotto la soglia della poverta e che emigrano dall’entroterra alla ricerca di lavoro. Per un salario irrisorio, lavorano in condizioni estreme, senza protezioni adeguate, esposti a sostanze tossiche, amianto, esplosivi residui e al rischio costante di incidenti mortali.

Secondo diverse organizzazioni internazionali, si tratta di uno dei lavori più pericolosi al mondo, con altissimi tassi di mortalità causata da incidenti e da malattie professionali. Diverse Associazioni non governative che si occupano della tutela dei diritti dei lavoratori hanno dichiarato estremamente rischioso e in violazione dei diritti umani ciò che le compagnie sudcoreane (ma in realtà non solo quelle sudcoreane) fanno. Un report per gli anni 2022 e 2023, pubblicato da Shipbraking platform, indaga proprio questo tema fornendo dati e raccontando la vita di coloro che vi lavorano. Questa Ong si dedica interamente alla difesa dei diritti dei lavoratori di questo settore, cercando di portare alla luce le condizioni in cui lavorano e i meccanismi che continuano a permettere il loro sfruttamento.

Com’è possibile che questo commercio di fatto clandestino continui?

Ad eccezione delle compagnie di navigazione responsabili che si rivolgono direttamente a impianti di riciclo in Europa, Turchia, Stati Uniti o Cina, la stragrande maggioranza degli armatori vende le proprie imbarcazioni obsolete ai cosiddetti “acquirenti in contanti”. Gli acquirenti in contanti sono commercianti di rottami specializzati nel commercio di imbarcazioni a fine vita con l’Asia meridionale. Gli armatori ottengono il prezzo più alto, anticipato e in contanti, per le loro imbarcazioni quando vendono a questo tipo d’acquirente. Gli acquirenti in contanti in genere cambiano la registrazione, la bandiera e il nome dell’imbarcazione durante il suo ultimo viaggio. Nascondendosi dietro compagnie postali e bandiere note per la loro scarsa applicazione del diritto marittimo internazionale, come Comore, Palau e Saint Kitts e Nevis, gli armatori cercano di evitare qualsiasi rischio legale o reputazionale legato ai cantieri di spiaggiamento. L’utilizzo di strutture societarie nascoste rende inoltre estremamente difficile per le autorità rintracciare e ritenere responsabili armatori e acquirenti in contanti per pratiche illecite.

Come si svolge il processo di disassembalmento delle imbarcazioni e perche è cosi problematico?

Le navi vengonono ancorate durante l’alta marea vicino alla costa e quando l’acqua si ritira si incagliano sul fondale sabioso. Qui entrano in gioco i lavoratori di questi cantieri navali informali: durante le ore di bassa marea raggiungono l’imbarcazione e cominciano a disassemblarla per poi tornare sulla spiaggia quando la marea comincia a salire.

Le condizioni in cui questi lavoratori, i cosiddetti spaccanave, operano sono miserabili. La maggior parte di loro lavora a cottimo, con contratti giornalieri di solito solo verbali e vengono pagati a fine giornata con retribuzioni che equivalgono a pochi dollari al giorno. I turni di lavoro si svolgono seguendo i ritmi della marea compresa la notte. I lavoratori operano sulle imbarcazioni usando torce termiche per rimuovere i vari componenti, praticamente senza addestramento né sistemi di protezione individuali. Le navi entrano, nel corso dei mesi, in condizioni di degrado sempre peggiori essendo esposte alle maree e agli eventi atmosferici.

A rendere ancora più pericoloso il lavoro però sono anche i materiali cui i lavoratori sono esposti e con cui si trovano a lavorare. Le navi spesso contengono sostanze tossiche, particolarmente gravi sono le condizioni di lavoro allorché queste si disperdono nell’aria e nell’acqua. Si tratta per lo più di amianto ma anche nafta o altro tipo di carburante.

A volte però le cose vanno ancora peggio, il commercio clandestino di questi quasi-relitti si incontra con quello dei rifiuti tossici: in questi casi le navi vengono riempite di scorie industriali prima di essere abbandonate sulle spiagge. I lavoratori, i quali già di loro non sarebbere qualificati per lavorare nel settore, finiscono per trovarsi a dover gestire materiali che non conoscono e che sono estremamente dannosi. Nel tempo questi cantieri navali a cielo aperto si trasformano in zone ad alto rischio ambientale che mettono a rischio non solo i lavoratori ma anche gli ecosistemi circostanti e le comunità che li abitano.

I dati raccolti da Shipbreaking Platform parlano di un minimo di 617 imbarcazioni vendute in questo settore sommerso tra il 2022 e il 2023. Le navi demolite nel periodo preso in considerazione dal Report della Ong includevano grandi petroliere, navi passeggeri, rinfusiere[1], piattaforme galleggianti, navi cargo e navi passeggeri. Considerando le dimensioni delle navi demolite, le spiagge del Bangladesh e del Pakistan ricevano le imbarcazioni più grandi, mentre i cantieri indiani demoliscono navi di medie dimensioni. Pertanto, più grande è la nave, maggiore è la probabilità che finisca su una spiaggia in Pakistan o Bangladesh, dove le condizioni di lavoro sono notoriamente le peggiori. Lo stesso Report ci dice che il taglio e la rimozione della struttura in acciaio di una nave a fine vita su una spiaggia soggetta a maree sono di per sé estremamente pericolosi, creando gravi rischi per i lavoratori coinvolti in queste operazioni. Inoltre, l’acciaio della nave è anche coperto di vernici contenenti metalli pesanti e altri materiali pericolosi che rilasciano fumi tossici se tagliati con torce termiche.

Le maggiori preoccupazioni sono legate all’assenza di strutture mediche adeguate per il trattamento di infortuni gravi, alle violazioni dei diritti dei lavoratori e alla mancanza di capacità di gestire in sicurezza diversi flussi di rifiuti pericolosi (ad esempio, materiali contaminati da mercurio e radioattivi, che si trovano tipicamente nelle unità offshore di petrolio e gas[2]). Inoltre vi è un altro problema legato allo stoccaggio e allo smaltimento dei rifiuti tossici: per quanto esistano nei paesi interessati luoghi predisposti alla loro raccolta, tuttavia persistono preoccupazioni relative alla gestione e al controllo dei rifiuti, è infatti alta la probabilità che questi vengano interrati o smaltiti illegalemente.

I tassi di mortalità sono tra i più elevanti al mondo, anche se è difficle fare una stima precisa, si tratta di un‘immensa economia sommersa che sfrutta i lavoratori più disperati per ricavarne profitto, la maggior parte degli incidenti sono causati dalle cadute dall’alto i cui rischi sono causati dalle condizioni di deterioramento delle navi e dalla natura disorganizzata del lavoro. Il vero problema però, anch’esso difficile da sondare, è quello delle esposizioni ad agenti chimici che causano danni a lungo termine e irreversibili. E‘ tra l’altro stata segnalata la presenza di lavoratori minori in molti di questi cantieri navali, i giovani lavoratori sono spesso i protagonisti dei turni notturni, dove è più facile sfuggire ai già scarsi ed inefficaci controlli.

Secondo i dati raccolti da Shipbreaking Platform i minori compongono circa il 13% dei lavoratori del settore in Bangladesh, con simili numeri presumibilmente anche in India e Pakistan.

Chi è responsabile di tutto ciò?

Il peggior Paese, cioè quello che ha effettuato lo smaltimento di un numero maggiore di imbarcazioni, prendendo in considerazione il periodo 2022-2023, è stata la Cina. Nonostante l’esistenza di impianti di riciclaggio navale all’avanguardia a livello nazionale, gli armatori cinesi hanno venduto un totale di 99 navi per la demolizione nell’Asia meridionale, la maggior parte delle quali si è arenata in Bangladesh.

Nel 2022, Russia, Singapore, Emirati Arabi Uniti (Eau) e Grecia hanno seguito la Cina, con più di una dozzina di navi arenate ciascuna. La compagnia di navigazione singaporiana Berge Bulk è stata tra le peggiori aziende, raggiungendo il primo posto nel 2022 con più navi vendute. Pratica tra l’altro in evidente contrasto con l’impegno dichiarato nella politica aziendale per la sostenibilità e la sicurezza.

Nel 2023 sono invece ai primi posti Hong Kong, Emirati Arabi Uniti, Thailandia, Grecia, Russia e Corea del Sud, subito dopo la Cina, con più di una dozzina di navi arenate per ciascun Paese. Il gigante svizzero delle navi portacontainer Mediterranean Shipping Company (Msc) è stato il peggiore nel 2023, con 14 vecchie navi portacontainer abbandonate e demolite ad Alang, in India. Evergreen, Gearbulk, Green Reefers, Maersk, Sinokor e Zodiac Group Monaco sono altre note aziende che hanno venduto i loro asset tossici per la demolizione sulle spiagge dell’Asia meridionale nel 2023. In termini di tonnellaggio, gli armatori europei, provenienti dall’Ue e dagli Stati Efta[3], sono responsabili di quasi un terzo di tutte le navi vendute per la demolizione ai cantieri di spiaggiamento.

L’industria sopravvive in Bangladesh perché il mondo occidentale ha trovato un luogo dove scaricare le proprie imbarcazioni tossiche senza alcuna responsabilità. I Paesi occidentali stanno salvando le loro spiagge e la loro gente, ma espongono il nostro mare, le nostre spiagge e i nostri lavoratori a conseguenze mortali. Nessun paese esportatore di navi permetterebbe mai che imbarcazioni cariche di rottami tossici venissero demolite sulle proprie spiagge con lavoratori privi di una formazione adeguata sulle misure di sicurezza, dispositivi di protezione individuale e monitoraggio sanitario.
Rizwana Hasan, Direttrice della Bangladesh Environmental Lawyers Association (Bela)

Nel 2022 e nel 2023, l’Europa ha utilizzato solo una piccola parte della propria capacità di riciclaggio delle navi europee. L’Ue controlla circa il 40% della flotta operativa mondiale. Pertanto ha una responsabilità specifica nel trovare soluzioni alla crisi della demolizione navale e invertire la tendenza alla rottamazione non sostenibile.

Una legislazione basata esclusivamente sulla giurisdizione dello Stato di bandiera (per cui ogni nave applica le leggi della bandiera che batte e la legislazione europea si applica solo su navi che battono bandiera di un paese europeo), come prevede il Regolamento Ue sul riciclaggio delle navi, non riuscirà a orientare il settore verso pratiche migliori.

Questa è l’opinione dell’Ong Shipbreaker Platform, la quale chiede che si prevedano incentivi per coloro che decidono di smaltire la nave nei cantieri navali europei (a norma ) e prima che la nave si trasformi in un rifiuto tossico a causa del degrado. Allo stesso tempo chiede che si puniscano le aziende che inquinano, secondo il principio per cui i costi dell’inquinamento e del trattamento dei rifiuti devono ricadere su chi li produce e su chi li ha prodotti, non sui Paesi più poveri e sui lavoratori più vulnerabili.


NOTE

[1] I traffici marittimi internazionali sono per due terzi legati al mercato delle rinfuse, ovvero delle materie prime necessarie ai diversi processi industriali.

[2] È un tipo di nave utilizzato nell’industria petrolifera per la produzione e lo stoccaggio di petrolio e/o di gas naturale e la distribuzione del petrolio.

[3] Associazione europea del libero scambio.

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