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Lavorare in open space

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Molte industrie di servizi in Italia e  circa il 70% negli USA, non ultime quelle della Silicon Valley (da Google a Facebook), amano che l’architettura degli uffici risponda ai canoni dell’open space. Grandissimi locali aperti in cui le persone lavorano gomito a gomito separate solo da basse paratie.

Diciamo subito che il criterio degli open space, adorato dalle grandi company, è in realtà vecchio e subissato di critiche. Critiche che, paradossalmente, sono dovute alle esigenze a cui, inizialmente, gli open space intendevano dare una risposta.

Gli uffici aperti nascono all’inizio del secolo scorso proprio negli USA, come conseguenza del crescente aumento di persone impiegate nelle aziende. Il loro primo vantaggio è infatti rappresentato dall’opportunità di utilizzare al meglio gli spazi ristretti e quindi permettere un buon risparmio sui costi.
Il 1939 è l’anno della loro consacrazione, grazie a Frank Lloyd Wright, leggenda dell’architettura statunitense. L’architetto applica un progetto di open space agli uffici della Johnson&Johnson, un’azienda che ancora oggi produce prodotti per la casa, per l’igiene e altro ancora.
Wright crea soffitti altissimi da cui penetra luce naturale in abbondanza, colonne sottili dalla forma di tronchi d’albero, postazioni singole ben distanziate e disposte secondo una planimetria fluida. Nella sostanza ammoderna e adatta ad uso ufficio le linee neogotiche che piacciono molto agli americani.
Siamo lontani dalla richiesta rivolta dal capo di Facebook Mark Zuckerberg al famoso architetto Frank Gehry: progettare il più grande ufficio open space del mondo per ospitare quasi 3.000 ingegneri tutti insieme.

Il progetto di Wright  fu molto apprezzato. I giornali dell’epoca raccontano che le persone “non volevano più tornare a casa” dal lavoro. A Wright fa compagnia poco dopo Herman Miller il quale propone l’action office, uno spazio che si può riorganizzare facilmente utilizzando componenti modulari. Come per Wright, così per Miller gli arredamenti e i muri non devono limitare le interazioni, al contrario, devono facilitarle.

Quindi, l’open office è il risultato di uno studio il cui obiettivo è migliorare le relazioni e la comunicazione interna degli impiegati. Questa è la ragione “nobile” dell’open space. Ma è così?

Nel tempo si sono capite due cose. La prima è che la vera ragione della scelta degli open space, oltre all’utilizzo degli spazi e del risparmio, sta nel fatto che i manager adorano la possibilità di tenere d’occhio i loro dipendenti. La seconda che numerosi studi smentiscono che l’idea nobile che tale sistemazione aumenti le interazioni comunicative tra dipendenti.

In realtà ciò che si ottiene è un falso senso di miglioramento della produttività. Numerosi studi, anche recentissimi, lo dimostrano.
Uno studio del 2013 ha messo in evidenza che molti impiegati degli open space sono frustrati dalle continue distrazioni, e che quindi dichiarano di lavorare peggio. Quasi la metà dei lavoratori di open space interpellati dallo studio ha detto che il rumore è per loro un problema significativo; un altro 30% si è lamentato della mancanza di privacy. Molti, segue lo studio, lamentano “la scarsa produttività dovuta alle distrazioni acustiche […] raddoppia negli open space rispetto ai posti di lavoro con uffici privati”.

Stando a un’indagine condotta dal Berkeley’s Center for the Built Environment su 65mila lavoratori di tutti e cinque i continenti, è l’acustica scadente il principale problema: un impiegato su due si lamenta di essere costretto a lavorare immerso in una specie di alveare ronzante di dialoghi altrui, i quali non favoriscono certo la concentrazione. In più se si vuole parlare con qualcuno ci si sente “osservati” dai colleghi che, trovandosi a pochi centimetri di distanza, possono ascoltare conversazioni private.

Secondo Anne-Laure Fayard, docente al Politecnico dell’università di New York che ha studiato a lungo l’argomento, il risultato è che negli open space le conversazioni diventano più superficiali e inutili. Sempre di recente è apparso un articolo del New Yorker dove veniva sottolineato che i benefici degli open space nella costruzione del “cameratismo da ufficio” mascherano gli effetti negativi sulle performance lavorative. Per quanto gli impiegati si sentano a volte parte di un’impresa rilassata e innovativa, l’ambiente che si crea danneggia la loro attenzione, la loro produttività, il loro pensiero creativo e la loro soddisfazione.

Infine sull’argomento è intervenuta l’autorevole Harvard Business Review che, citando uno studio condotto sui dipendenti di un centinaio di aziende, ha evidenziato come negli uffici open space si registrano il 66% in più di congedi per malattia rispetto ai classici uffici,  le conversazioni calano del 73% a beneficio della messaggistica istantanea e anche della vecchia e cara e-mail (+67%). In altri casi, invece, “dipendenti di sesso femminile hanno dichiarato in maniera convinta la consapevolezza di essere iper-osservate e di sentirsi sotto costante valutazione del loro aspetto fisico da parte dei colleghi di sesso maschile”.

Anche in Italia ci si sta accorgendo degli elementi critici di tale architettura ambientale. Francesco Scullica, professore associato al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano ed esperto di design degli spazi di lavoro afferma: “L’open space auspicabile è quello che permette un giusto equilibrio tra privacy ed esigenze di condivisione. In un open space rigido subentra il senso di alienazione che porta a mandare le e-mail o a mettere le cuffie per isolarsi”.

L’open space non sembra quindi aver raggiunto i suoi obiettivi, ma il vero motivo per ripensarlo è un altro. L’open space risponde ad alcune teorie ormai obsolete. Quelle secondo le quali l’intervento sull’ambiente lavorativo, da solo, può modificare le modalità relazionali e persino l’umore dei dipendenti. Certamente l’ambiente di lavoro, la sua progettazione ergonomica, l’areazione, la luminosità naturale sono importanti (e spesso sono assenti), ma lo sono anche altri elementi di tipo culturale, organizzativo e relazionale che spesso vengono altrettanto o forse di più, trascurati.

Per esempio una maggiore autonomia sul lavoro, migliori relazioni di squadra, il rifiuto di relazioni autoritarie, di ruoli poco chiari,  meno esasperata competizione rendono molto più responsabili, attenti e produttivi i lavoratori di quanto possano fare da soli un ambiente aperto, la musica o la luce.

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