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Rifiuto di svolgere il proprio lavoro in condizioni di grave insicurezza

Il lavoratore può rifiutarsi di svolgere la propria mansione se questa si realizza in un contesto minaccioso per la sua sicurezza?

Per rispondere a questa domanda partiamo da un caso concreto emerso con la Sentenza n. 21479 emanata dalla sez. Lavoro della Cassazione il 07.11.2005.

La Corte si è trovata ad esaminare il caso di un lavoratore con mansioni di esattore presso il casello di autostradale di Castelletto Ticino (A8 Milano-Varese) che, avendo subito tra i mesi di giugno e luglio 2000 ben tre rapine a mano armata durante il turno notturno, nel corso di una di esse era anche stato ferito, aveva chiesto inutilmente alla Società Autostrade Concessioni SpA di cui era dipendente l’adozione di misure idonee a garantire e tutelare la sicurezza dei lavoratori addetti al casello.

Successivamente, davanti all’inerzia della Società, aveva provveduto a inviare una diffida nella quale precisava di volersi astenere dal lavoro con diritto alla retribuzione a decorrere dal 15 ottobre 2000. Alla missiva del lavoratore la Società rispondeva minacciando il licenziamento in caso di rifiuto di svolgimento del lavoratore considerato come un’assenza ingiustificata. Cosa che poi avvenne.

Con sentenza del 19 settembre 2001 il giudice adito rigettava la domanda del lavoratore.

Con sentenza del 10 maggio-6 giugno 2002 la Corte d’appello di Torino rigettava l’appello del dipendente osservando che ai fini della decisione della controversia non fosse determinante accertare se le misure di sicurezza adottate dalla società datrice di lavoro fossero pienamente idonee a garantire la sicurezza dei lavoratori o se, invece, ne fossero individuabili altre maggiormente efficaci, perché, anche qualora fosse stato accertato un parziale inadempimento del datore di lavoro agli obblighi derivanti dall’art. 2087 c.c., il rifiuto totale della prestazione lavorativa da parte del lavoratore non sarebbe stato comunque proporzionato al parziale inadempimento del datore di lavoro e non sarebbe stata, perciò, applicabile la discriminante di cui all’art. 1460 c.c.

La Cassazione notava invece che

Nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio inadempimento con l’inadempimento dell’altra, occorre procedere alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti […]

Tale comparazione deve essere sia di tipo quantitativo e cioè la proporzionalità tra i due adempimenti previsti, sia qualitativa e cioè la sostanza del rischio a cui veniva esposto il lavoratore. Invece, afferma la Corte:

la Corte d’appello di Torino ha esaminato la comparazione delle inadempienze in base al criterio quantitativo e non già a quello qualitativo ossia ha comparato i due contrapposti inadempimenti non già in riferimento alla loro natura e gravità, bensì alla totale o parziale mancata esecuzione delle fondamentali prestazioni corrispettive del contratto di lavoro.

Quindi recita sempre la sentenza

l’ipotesi del sopravvenuto venir meno in modo totale o parziale della prestazione lavorativa tale da giustificare il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo ai sensi dell’art. 3 L. 604/1996 non è ravvisabile se il mancato o non completo adempimento del lavoratore trova giustificazione nella mancata adozione da parte di datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell’integrità fisica e psichica del prestatore di lavoro e se quest’ultimo prima dell’inadempimento secondo gli obblighi di correttezza informa il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare a tutela dell’integrità fisica e psichica del lavoratore, sempre che tale necessità sia evidente o, comunque, accertabile o accertata.

In sostanza il principio che ha stabilito la Corte è che l’inadempimento (anche completo) della prestazione lavorativa, posto in essere dal lavoratore dipendente, è giustificato (e non può costituire motivo di licenziamento per giusta causa) quando il datore di lavoro non abbia adottato, pur in mancanza di norme specifiche, tutte le misure di sicurezza necessarie al fine di preservare l’integrità fisica e psichica del dipendente e costui abbia, conformemente agli obblighi di correttezza, informato tempestivamente, vale a dire prima di porre in essere l’inadempimento (derivante dall’astensione del dipendente dall’attività lavorativa), il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare per tutelare l’integrità predetta. È altresì essenziale che la necessità delle misure di sicurezza sia evidente o, comunque, accertabile o accertata.

La Corte decide:

Una volta accertata l’inosservanza di tale obbligo di adozione delle misure di sicurezza, avrebbe dovuto esser cura del giudice di merito accertare, a sua volta, previo libero apprezzamento delle risultanze di tutte le circostanze evidenziate dai testi o da ritenere acquisibili al processo se non come fatti notori (successive rapine allo stesso casello in occasione delle quali sono stati feriti esattori ivi addetti e successiva adozione delle misure di sicurezza già richieste dal M.) quanto meno se e come fatti non contestati, se fosse stata o no giustificata secondo correttezza e buona fede la risposta di inadempimento del lavoratore.
Pertanto, in accoglimento del proposto ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Genova, la quale si uniformerà, nella definizione della controversia, ai principi di diritto sopra sottolineati e sorreggerà la decisione con motivazione esauriente e immune dai vizi logici e giuridici in cui è incorsa la Corte d’appello di Torino e sopra evidenziati.

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