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Eppur si muove

Per caso mi sono imbattuto su un blog il cui curatore invitava 8 esperti a sintetizzare le “gioie e i dolori” che incontra chi si occupa di Sicurezza sul lavoro.

Non mi sarei soffermato a leggere se gli intervistati non fossero stati esperti conosciuti e stimati, tra cui Lorenzo Fantini (ex Direttore della Divisione salute e Sicurezza del Ministero del Lavoro), Silvia Stangherlin di Arcadia Consulting e Franco Mugliari, che tiene un interessante blog in cui denuncia “il meglio del peggio” in questo campo.

In sintesi, gli 8 esperti concordavano sul fatto che le “gioie” della Sicurezza sul Lavoro possono riassumersi nel dato che dal 1994 (anno del Decreto 626) a oggi l’attenzione al tema è andata crescendo. Ormai quasi tutte le aziende hanno il Documento di Valutazione dei rischi, impartiscono formazione e consegnano i DPI.

Quanto ai dolori, anch’essi possono essere riassunti in una sola frase: siamo terribilmente indietro nell’acquisire una vera e radicata cultura della sicurezza.

Il commento è semplice: nulla di nuovo. I progressi fatti sono importanti, ma in buona parte avvengono perché “imposti” da una legge. Non abbiamo controprove che ci dicano a quale livello si assesterebbero le aziende italiane se non esistessero gli obblighi di legge. Dall’insieme delle risposte, però, si può dedurre che risulterebbe sicuramente più basso dell’attuale.

Tutti continuiamo a romperci la testa per capire come risalire la china, come integrare la famosa “cultura della sicurezza” nella cultura imprenditoriale. Qualcuno potrebbe dire “rimovendo le cause di questa separatezza”, ma quali sono queste cause?
Gli interventi degli esperti ne propongono alcune, anche queste peraltro non nuove. La semplificazione della normativa, una sua sburocratizzazione, una migliore gestibilità. E anche il superamento della crisi, che potrà rendere disponibile denaro in più da spendere in sicurezza.

Sappiamo anche, però, che queste non sono le sole cause e che nonostante questi fattori è possibile mettere mano alla prevenzione aziendale. Molto può essere fatto, e praticamente senza costi.
Un esempio: perché tollerare l’assunzione di comportamenti informali che vanno in contraddizione con le regole auree per evitare infortuni? Perché non organizzare meglio l’accumulo di materiali necessari alla produzione o gli scarti in modo tale da evitare che possano essere fonte di danni? Perché non curare meglio la comunicazione tra management e lavoratori?

E poi, diciamocelo francamente, la cultura si acquisisce e non si riceve.

Recenti studi sull’imprenditoria italiana ci dicono che:

Non possiamo però dare tutta la colpa allo Stato, è vero che abbiamo una delle più alte tassazioni d’Europa, la criminalità certo non ci aiuta, la burocrazia è straziante, lo riconosco… ma siamo un popolo che non si forma, non conosciamo l’inglese, e scegliamo molto spesso la strada più comoda, quella che poi ci porta inevitabilmente in un vicolo cieco.
da AFC, Lezioni sugli errori degli imprenditori italiani

Quando le aziende sono ereditate da genitori (caso non raro), quasi mai si ereditano le capacità imprenditoriali e l’intuizione di affidare l’azienda ad amministratori capaci. L’unico imperativo in tempi di crisi ma anche di buoni affari è ‘risparmiare’ su tutto, di investimenti non se ne parla, quando sono fatti è solo per usufruire di sgravi fiscali, per poi non usufruire dei fondi che i vari enti mettono a disposizione per lo sviluppo. La ricerca, intesa non solo come ricerca scientifica, ma come ricerca di soluzioni produttive migliori e quindi più remunerative, è del tutto inesistente, infatti l’Italia ha pochissimi brevetti.
Corrado Formigli, Impresa Impossibile

Sono considerazioni vere, sono queste alcune delle concause? Il dibattito rimane aperto. Anche su Repertorio Salute.
Non possiamo pensare che in un mondo in cui vivono 7 miliardi di persone, non ci siano sufficienti opportunità di crescita e prosperità per un Paese come il nostro.

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