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Che fatica la modernità!

Il 9 aprile del 2008 venne approvato il D.Lgs 81/2008. Dieci anni fa.
Molti si aspettavano che in una ricorrenza così significativa si sviluppasse una seria riflessione sui vantaggi, i limiti, gli adattamenti di questa legislazione, in parte eccellente, ma in alcune parti ormai datata. Per dare l’idea di cosa significhino oggi 10 anni di età di una legge. Nel 2009 era apparso da poco Iphone, le chiavette USB avevano ancora una memoria e una velocità molto basse, Wikipedia era agli inizi, e proprio nel 2009 si iniziò a diffondere a prezzi accessibili la stampante 3D. Sembra un’altra epoca, ma in realtà sono pochi anni.

Se alziamo lo sguardo dai singoli oggetti incontriamo un cambiamento epocale dell’ambito industriale ben descritto da Luciano Pero, Docente del MIP del Politecnico di Milano:

Si sono così creati sistemi transnazionali di subfornitura e di cooperazione tra imprese grandi e piccole noti come “piattaforme produttive” o come reti globali di produzione, o network globali. Tali reti comprendono sia le imprese “madri”, localizzate nei paesi industrialmente più forti, sia le lunghe catene di subfornitura e le nuove fabbriche, localizzate anche in quelli emergenti. In queste reti le imprese sono strettamente collegate poiché il successo delle une è condizione del successo delle altre, e la capacità di innovare i prodotti delle prime si integra con la capacità di tenere bassi i costi di produzione e di innovare processi delle seconde. Tuttavia gli ambienti produttivi sono molto diversi tra settore e settore e tra azienda ed azienda, e si assiste in pratica a una elevata differenziazione dei modelli competitivi. Un esempio tipico dei network globali è quello della grande industria automobilistica tedesca. Essa negli ultimi decenni è stata capace di riconfigurare in modo radicale la catena produttiva, sfruttando a un tempo le competenze delle grandi fabbriche tedesche e le potenzialità delle fabbriche di assemblaggio dell’Europa Orientale o Meridionale o di altri continenti, come la Cina. Questa riorganizzazione delle fabbriche centrali ha innescato anche la revisione delle filiere dei subfornitori: da un lato le filiere della componentistica italiana, francese e spagnola (più costose ma di maggiore qualità) e dall’altro le filiere dei Paesi dell’Est Europa o asiatiche (meno costose ma di minore qualità).

Prosegue Pero indicando le due vie italiane di risposta a questo cambiamento. Il primo la scelta di accettare la competizione sulla qualità, l’altra la ripresa della tradizionale competizione sui costi.

Esemplare è a questo proposito il modo con cui la maggioranza delle imprese italiane ha affrontato e gestito il fenomeno della delocalizzazione. L’industria italiana ha spesso adottato strategie di delocalizzazione “opportunistiche” nel senso di cogliere a breve vantaggi di costo, senza la capacità di riorganizzarsi complessivamente.” Seguendo sostanzialmente due modelli. “Il primo paradigma è la  “clonazione”: l’idea cioè di riprodurre la fabbrica italiana in modo identico in un Paese estero, con ’obiettivo di ridurre i costi dei salari ma con lo stesso identico produttivo attivato in Italia e con un obiettivo a breve di vendere i prodotti anche nel nuovo Paese. Il secondo è il paradigma dell’”arrocco”: l’idea è di delocalizzare gran parte del ciclo produttivo a monte ma di mantenere in Italia la progettazione, qualcosa del confezionamento finale e la marchiatura, con la possibilità di vantare il made in Italy e un certo controllo di qualità sul prodotto finale.

Secondo l’ultimo Rapporto Istat (Istat, 2017), in base ad un indicatore di sostenibilità economica e finanziaria, le imprese italiane sono classificabili in tre gruppi: quelle “in salute” (circa il 32%, che esportano molto, sono molto innovative, hanno organizzazioni lean evolute), le imprese “fragili” (circa  il 47%, caratterizzato da bassa innovazione, organizzazione meno evoluta, mercato interno prevalente) e le imprese “a rischio” (circa il 21%), in progressiva difficoltà per la riduzione dei mercati e la concorrenza dei produttori esteri che non riescono a contrastare.

Poi è arrivata l’Industria 4.0. Prosegue il Prof. Pero:

Per accedere a industry 4.0 è necessaria una evoluzione delle nostre imprese verso forme organizzative nuove, meno gerarchiche, più basate sul lavoro in team e più flessibili.
L’innovazione organizzativa è una precondizione per Industry 4.0. Queste nuove caratteristiche di flessibilità organizzativa, di polivalenza e di lavoro in team si osservano con tutta evidenza nelle imprese che stanno adottando progressivamente le nuove tecnologie di Industry 4.0 (Laboratorio Cisl 4.0, 2017).

Ma perché abbiamo percorso questa lunga analisi, che potete leggere per intero in allegato?

Perché questi cambiamenti hanno una diretta relazione con gli infortuni da una parte e con il benessere dall’altra. Infatti:

Il nuovo dualismo che, come ricordato sopra, si è creato nel sistema industriale, si riflette sulle condizioni di lavoro generando un forte contrasto tra situazioni molto diverse. Infatti nelle imprese più innovative le tradizionali distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale tendono a ridursi o a scomparire. I lavoratori si trovano di fronte non solo a miglioramenti delle condizioni di lavoro (fatica, salute, sporcizia, rumore, ambienti più salubri) ma anche alla richiesta di un maggiore impegno intellettuale, come ad esempio l’analisi dei guasti, di errori e anomalie, la soluzioni di problemi. I tecnici a loro volta hanno informazioni e strumentazioni avveniristiche, ma devono anche operare direttamente nelle linee di produzione. Le differenze tra operai e ingegneri si riducono e i confini sono sempre più labili.Il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione e nel miglioramento dei processi diventa essenziale, e può assumere diverse forme, come ad esempio il lavoro in team e il sistema dei suggerimenti. Viceversa, nel secondo gruppo di imprese, quelle che competono sui costi, non solo si assiste a una progressiva riduzione di occupati e a una stagnazione o riduzione dei salari di fatto, ma spesso compaiono forme regressive di organizzazione del lavoro, basate su outsourcing, delocalizzazione e forme quasi “bracciantili” di organizzazione. In certi casi sono le nuove piattaforme digitali a generare forme regressive di lavoro dove le persone sono completamente asservite alla piattaforma, con ruoli solo esecutivi e senza autonomia.
È il “lato oscuro” della nuova Sharing Economy, che usa le moderne piattaforme digitali per attivare forme di sfruttamento e di lavoro degradato, che sembravano ormai superate dalla storia.

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