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Cassazione Penale, Sez. 4, 12 ottobre 2018, n. 46427

Infortunio del dipendente dell’agenzia interinale.


Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: TORNESI DANIELA RITA
Data Udienza: 11/07/2018

Fatto

1. Con sentenza emessa in data 14 novembre 2016 il Tribunale di Varese dichiarava G.C. responsabile del reato ascritto e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi due di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
Condannava l’imputato al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile che liquidava in complessivi euro 25.000,00.
1.1. Al G.C. era contestato il reato di cui all’art. 590, comma 3, c.p. in relazione all’art. 71, comma 1, d.lgs. n. 81/2008perché, nella qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Fonderia G.C. s.p.a, con sede in Varese, cagionava per colpa, consistita in negligenza derivante dalla violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali a M.D., lavoratore alle dipendenze dell’agenzia interinale Gi-Group s.p.a. ed assunto con mansioni di operaio sabbiatore con contratto di somministrazione presso la predetta società. In particolare all’imputato era addebitato di non avere assicurato alla persona offesa una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza riferiti alle mansioni, ai rischi, ai possibili danni e alle procedure di prevenzione e protezione e di non avergli messo a disposizione attrezzature conformi ai requisiti di cui all’art. 70, comma 2, del d.lgs. n. 81/08. In particolare, proprio a causa della mancata predisposizione di dispositivi di sicurezza sul macchinario denominato destaffatrice Slouiss sul quale stava lavorando M.D., quest’ultimo veniva colpito alla mano da un pezzo metallico del peso di circa 20 chilogrammi proiettato dal macchinario sul banco di lavoro e subiva lesioni personali consistite in “frattura composta F2 primo dito mano destra” con un periodo di malattia protrattasi per 68 giorni, con conseguente incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per analogo periodo di tempo.
In Varese il 13 luglio 2010.
2. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 26 ottobre 2017, confermava la pronuncia di condanna penale mentre riformava i profili civilistici evidenziando che la consulenza tecnica prodotta dalla parte civile su cui si era fondata la determinazione del danno non forniva criteri certi e univoci circa il danno subito e rimetteva, pertanto, la liquidazione definitiva al giudice civile riconoscendo, tuttavia, in suo favore il pagamento di una provvisionale quantificata in euro 8.000, corrispondente all’ammontare del danno, ritenuto comprovato, sulla base di ragionevole presunzione, in relazione al periodo di inabilità permanente, ai postumi permanenti, anche minimi, e al danno morale.
3. Avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione G.C. elevando i seguenti motivi.
3.1. Con il primo motivo deduce il vizio di violazione di legge e il vizio motivazionale rappresentando che è stata valutata la piena attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa costituita parte civile, pur essendo emerse incongruenze nel suo narrato.
Evidenzia, in primo luogo, che, per quanto riferito dalla persona offesa, l’infortunio sarebbe avvenuto il 13 luglio 2010, verso le 10.00 – 11.00 del mattino mentre non risulta che alcun testimone abbia assistito al fatto tant’è che la società Fonderia G.C. veniva informata dell’accaduto solo due giorni dopo, il 15 luglio, per via indiretta, ovvero tramite l’agenzia di lavoro interinale la quale, a sua volta, dovette verificare cosa fosse accaduto all’operaio. Peraltro il M.D., richiesto di indicare il nome del collega albanese che, a suo dire, avrebbe assistito all’infortunio, indicava G.D., dipendente della società Fonderia G.C. s.p.a. assunto in epoca successiva all’infortunio.
Inoltre la persona offesa, pur dolorante, con un dito fratturato, avrebbe continuato a movimentare manualmente carichi di circa 20 kg ciascuno per l’intero turno e avrebbe prestato la sua attività lavorativa anche il giorno seguente, dopo essersi tolto il bendaggio che gli era stato apposto.
Infine, viene ritenuta irragionevole la versione dei fatti resa da M.D. anche in relazione all’ospedale prescelto per farsi curare (quello di Monza e non quello più vicino di Varese e nemmeno quello di residenza (Somma Lombardo), evidenziando che le giustificazioni fornite dall’imputato (ovvero il fatto di essere stato sfrattato dal luogo di residenza e di avere trovato ospitalità presso la Caritas) non hanno trovato riscontro negli atti del processo.
Sottolinea che la precaria situazione economica in cui versa la parte civile fornisce una spiegazione plausibile circa la necessità di collocare l’infortunio all’interno del luogo di lavoro.
Infine, rileva che la discrasia tra le emergenze processuali e le conclusioni cui giunge la Corte di Appello si sostanzia in un vero e proprio travisamento degli elementi di prova.
3.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di violazione di legge e il vizio motivazionale per la erronea applicazione dell’art. 590, comma 3, cod. pen. in relazione all’art. 71, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 e dell’art. 42 cod. pen.
Sostiene che la Corte distrettuale ha erroneamente ritenuto che G.C., in qualità di legale rappresentante di Fonderia G.C. s.p.a., abbia omesso di fornire un’adeguata formazione specifica alla persona offesa, in relazione alla concreta mansione per cui era stato assunto e ai rischi a essa
connessi, pur risultando comprovate le ragioni della mancata sottoscrizione del modulo da parte del predetto lavoratore.
Inoltre il giudizio controfattuale è stato del tutto pretermesso.
3.3. Con il terzo motivo deduce il vizio di violazione di legge e il vizio motivazionale in relazione all’art. 71, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 e all’art. 42 cod. pen. in ragione della abnormità del comportamento del lavoratore dovuta all’inosservanza delle direttive impartite, ovvero all’uso dell’apposito strumento c.d. rampino che avrebbe, con certezza, evitato che le mani dell’operatore si trovassero in una zona di rischio.
3.4. Con il quarto motivo deduce la inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 539, comma 2, 576 e 597 cod. proc. pen. stante il difetto degli elementi per quantificare l’ammontare della provvisionale.
3.5. Con il quinto motivo deduce il vizio di violazione di legge e il vizio motivazionale in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena nonostante il suo stato di incensurato.
3.6. Conclude chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

Diritto

1. Il ricorso non presenta profili di manifesta infondatezza ed impone, pertanto, di rilevare l’intervenuto decorso del termine di prescrizione del reato maturato in data 13 gennaio 2018 e, dunque, in data successiva alla pronuncia di appello.
La delibazione dei motivi fa escludere l’emergere di un quadro dal quale possa trarsi ragionevole convincimento dell’evidente innocenza del G.C..
Sul punto, l’orientamento della Corte di Cassazione è univoco. In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’Imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, cosicché la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n.35490 del 28/05/2009, Rv.24427501).
Nel caso di specie, restando al vaglio previsto dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., l’assenza di elementi univoci dai quali possa trarsi, senza necessità di approfondimento critico, il convincimento di innocenza dell’imputato impone l’applicazione della causa estintiva.
2. Si soggiunge che, nel giudizio di impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice o dal giudice di appello ed essendo ancora pendente l’azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell’art.578 cod. proc. pen., è tenuto, quando accerti l’estinzione del reato per prescrizione, ad esaminare il fondamento dell’azione civile. In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell’impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni ed al risarcimento pronunziata dal primo giudice o, come nel caso in esame, confermata dal giudice di appello.
2.1. Con riguardo, in particolare, all’impugnazione proposta anche in relazione alle statuizioni civili, secondo quanto già affermato da questa Sezione (Sez.4, n.10802 del 21/01/2009, Rv.24397601), trova applicazione il principio cosiddetto di immanenza della costituzione di parte civile.
In ragione di tale principio, normativamente previsto dall’art.76, comma 2, cod. proc. pen., secondo il quale «la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo», il giudice di legittimità è tenuto a verificare l’esistenza dei presupposti per l’affermazione della responsabilità penale ai soli fini della pronuncia sull’azione civile, allorché abbia rilevato una causa estintiva del reato. Tale principio comporta, infatti, che la parte civile, una volta costituita, debba ritenersi presente nel processo anche se non compaia, debba essere citata anche nei successivi gradi di giudizio anche se non impugnante e senza che sia necessario per ogni grado di giudizio un nuovo atto di costituzione.
2.2. Corollario di questo principio generale è che l’immanenza viene meno soltanto nel caso di revoca espressa e che i casi di revoca implicita – previsti dall’art.82, comma 2, cod. proc. pen., nel caso di mancata presentazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado o di promozione dell’azione davanti al giudice civile – non possono essere estesi al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla norma indicata (Sez. 5, n.39471 del 04/06/2013, Rv. 25719901;Sez. 6, n.48397 del 11/12/2008, Rv. 24213201).
3. Ciò posto, si osserva che il primo e il secondo motivo riesaminano il materiale probatorio raccolto e tendono ad affermare una diversa lettura delle emergenze istruttorie e una ricostruzione del fatto alternativa rispetto a quella fatta propria dalla Corte distrettuale che non è consentita in questa sede, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali. Spetta infatti al giudice di merito il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova circa la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti, fatto salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623).
Ed invero, la previsione contenuta nell’alt. 606, comma 1, lett.e) cod. proc. pen. secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da altri atti del processo purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo del giudice di legittimità – il cui compito non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del giudice di merito – bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare l’incompiutezza strutturale della motivazione della corte di merito: incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte distrettuale, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata.
Le deduzioni del ricorrente non risultano, dunque, in sintonia con i principi della giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989) alla cui stregua la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con «atti del processo», specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione.
L’art. 606, comma 1, lett.e) cod. proc. pen., come modificato dall’art. 8 della legge n. 46 del 2006, non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso. La nuova disciplina consente di dedurre solo il vizio di travisamento della prova che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, sempreché la difformità risulti decisiva (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460): circostanza questa non ricorrente nel caso in esame.
4. In relazione al terzo motivo è sufficiente rammentare che, secondo la giurisprudenza di legittimità ( Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Rv. 272222), il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando l’imprudente comportamento del dipendente sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli – e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro – o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.
Tali ipotesi non ricorrono, all’evidenza, nella fattispecie in esame.
5. Con riguardo al quarto motivo, si osserva che nella vicenda processuale in esame il giudice di primo grado aveva condannato l’imputato al risarcimento dei danni che veniva liquidato in euro 25.000 e non si era soffermato sul tema della provvisionale in quanto la relativa questione non gli era stata prospettata né aveva formato oggetto di pronuncia esplicita e implicita. .
La decisione del giudice di appello che ha confermato la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno demandando la liquidazione al giudice civile e concedendo, al contempo, una provvisionale nella misura di euro 8.000 non aggrava l’esposizione risarcitoria dell’ imputato in favore della parte civile non impugnante e non si sostanzia nella dedotta reformatio in peius.
Si rammenta che la giurisprudenza di legittimità (Sez. Un. n. 53153 del 27/10/2016) ha escluso che la disposizione dettata dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. abbia una portata tale da estendersi alle statuizioni civili trattandosi di norma che, ponendo un limite alla pretesa punitiva dello Stato, non si applica all’istanza risarcitoria oggetto dell’azione civile.
6. Alla stregua di quanto sopra esposto, la sentenza impugnata va annullata agli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione. Il ricorso va rigettato agli effetti civili e il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi euro 2.500,00 oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata agli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi euro 2.500,00 oltre accessori di legge.
Così deciso l’ 11 luglio 2018

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